A TALE OF FILIPINO VIOLENCE (2022), di Lav Diaz
«A Marcos interessa solo mantenere il potere: è fascista». Lo si dirà apertamente, negli anni Settanta di A Tale of Filipino Violence, titolo con cui Lav Diaz ha chiesto e ottenuto di poter presentare al FIDMarseille 2022 una fluviale versione cinematografica da 434′ come anteprima internazionale della sua primissima serie TV Servando Magdamag. Una stoccata dura, forte, ben precisa, tirata e fatta riecheggiare proprio al momento dell’insediarsi alla presidenza del Paese di Ferdinand Marcos jr, figlio del vecchio dittatore, eletto lo scorso 9 giugno insieme alla vicepresidente Sara Duterte figlia dell’altrettanto destrorso presidente uscente. Non è certo un caso, del resto, che il grande scrittore e sceneggiatore filippino Ricky Lee, attivista contro la dittatura da ben prima del suo anno di repressione in carcere fra il ’74 e il ’75, abbia deciso proprio nell’ultimo periodo di mettersi al lavoro su Servando Magdamag. Un progetto multiforme e coerentissimo, che alla raccolta ragionata e alla pubblicazione dei suoi racconti scritti ai tempi della legge marziale ha sempre previsto di affiancare un’espansione dell’omonima short story che in qualche modo comprendesse tutte le altre in una (nemmeno troppo mini, viste le 7 ore abbondanti) serie televisiva, con cui tornare alle oscurità del passato per parlare apertamente del presente, con cui ragionare sui perversi meccanismi delle ereditarietà del potere e sulle storture di un capitalismo visto come un male assoluto di eredità coloniale, con cui raccontare di una stirpe maledetta, nata dalle violenze dell’imperialismo e della guerra, reiterata vittima ma soprattutto destinata a rinnovarsi come reiterata carnefice, nella quale una mela non può cadere troppo lontana dall’albero – marcio – che l’ha generata. Contattare per primo Lav Diaz per adattare a quattro mani la sceneggiatura e affidargli la regia, in questo senso, è stata semplicemente la più logica conseguenza per portare a compimento il progetto, coinvolgendo non solo un assoluto e rivoluzionario genio del cinema, inventore di un linguaggio in tempo reale dalla strabordante portata emotiva, ma anche il regista più apertamente politico del Paese, a sua volta toccato personalmente dall’infanzia sotto Marcos e per tutta la carriera più e più volte tornato agli anfratti più oscuri nella travagliata Storia dell’Arcipelago. Un autore che in quasi tutti i suoi lavori ha sempre seguito il medesimo schema concettuale di corsi e ricorsi storici con cui Servando Magdamag innesta gli anni Settanta nell’urgenza delle contingenze presenti, e quindi con ogni probabilità a sua volta fonte di ispirazione per Lee. Tanto che, anche in un lavoro nato per la televisione e su commissione, Lav Diaz non ha bisogno di rinunciare in alcun modo al suo personalissimo cinema di long take e di bianco e nero, di malattie (fisiche/mentali) e di soldati violenti, di personaggi doppi allo specchio e di storie parallele (o magari di differenti punti di vista sulla stessa storia) che si intrecciano quasi all’improvviso. Con tanto di unico, ma ripetuto, movimento di macchina, concitato, sporco e a mano, che ritorna a quelli altrettanto rari dei film diaziani in MiniDV dei primi Duemila (Heremias, ma non solo) per sognare una soggettiva impossibile di locandine noir americane. Anzi, per molti versi A tale of Filipino Violence è quasi una summa del cinema precedente del regista filippino, delle sue aspirazioni, del suo insistito ragionare teorico sul mezzo. A partire ovviamente da Evolution of a Filipino Family del quale questo film si propone per molti versi come un ideale controcampo, come un’epopea familiare parallela che, dalle innocenti baracche degli ultimi, si sposta nelle case della borghesia che li schiaccia ma che a sua volta rimane schiacciata da chi ha ancora più potere. Ma tornano anche Death in the Land of Encantos e From what is before nelle torture perpetrate dai militari, torna anche Florentina Hubaldo, CTE nella follia ben più lucida della “normalità” di Tiya Dencha e nella tenerezza con cui ancora aspetta il marito trucidato trent’anni prima, torna anche Melancholia nell’umanità delle puttane e nelle identità che si nascondono al di sotto di quelle ufficiali, torna anche A Lullaby to the Sorrowful Mistery nei salotti aristocratici (d)a cui cercare di cambiare visuale, torna persino Jesus, Revolutionary nel personaggio del predicatore Kristo trucidato perché accusato di essere comunista. E ovviamente tornano i vari The woman who left, Season of the Devil, The Halt e Genus Pan, nel costante indagare il genere dell’ultimo Lav Diaz che, dopo aver adattato alla sua personalissima poetica e al suo personalissimo linguaggio il thriller, il musical (a cappella), la fantapolitica, la fantascienza e l’hard boiled, realizza questa volta sin dal sottotitolo una «cine-novela» che gioca apertamente con i cliché della soap, fra salotti, tradimenti e inconfessabili vizi, fra fratelli (magari gemelli), mogli e delitti passionali, fra corruzioni, sacrifici, mortali idiosincrasie e fatali innamoramenti, mentre i fili narrativi lentamente si incontrano e si intersecano come tesi, antitesi e (impossibili) sintesi della Storia e del presente.
Basterebbe forse la lunga e brutale, ma al contempo dolorosissima, sequenza iniziale, con la lettera che prelude a una bomba al mercato, con lo sguardo di un bambino che fa desistere l’attentatore, e poi con Hector Maniquis che pazientemente prepara la calce per uccidere il padre, colpevole di stupri e orrori assortiti, murandolo vivo mattone dopo mattone mentre declama versi della Bibbia. Ma c’è anche il canto straziato mentre un neonato sta per spegnersi fra le braccia del padre, c’è anche l’ostaggio torturato e bruciato dall’esercito in una pira notturna, c’è anche il traumatico ricordo dell’invasione giapponese che riaffiora, a subire gli stessi stupri e le medesime colpe destinate poi a ripetersi e a rincorrersi per le generazioni, come un destino ineluttabile di dolore. C’è anche una malinconia in grado a volte di disarmare perfino le guardie, c’è anche la corsa a nascondersi sotto il letto di un’adulta eternamente bambina, c’è anche un ex-professore di filosofia che ha deciso liberamente di rifiutare il capitalismo per darsi a una profonda e felice vita di strada e c’è anche un diario che racconta la storia di una famiglia coloniale, ricca, potente, della quale è assolutamente necessario conservare e tramandare i privilegi, le impunità, gli orribili segreti nascosti, magari sin dalla Spagna del 1600, sotto i tappeti della dominazione – o più spesso sotto le banconote con cui pagarsi i silenzi delle vittime. È per questo che, alla morte imminente del patriarca Servando Monzon, terzo nella linea di successione aristocratica, l’erede designato è il numero 6 Bandong, saltando a piè pari il quarto e il quinto. Ed è per questo che il bisnonno tanto si prodiga per istruire il pronipote su come rimanere equidistante fra Marcos, il potere, e i ribelli, fra i quali il cognato Delio Hermano fratello di sua moglie Belinda, che cercano di organizzare una resistenza pur consci che prima o poi non potranno che subirne le rappresaglie. Ma non si può (più) rimanere equidistanti, in un Paese che ha cambiato la Costituzione per trasformare la non più eleggibilità in dittatura, in cui l’esercito è ormai una milizia personale di chi è ancora più potente, in cui le colpe dei padri, degli zii e dei nonni vengono usate come accuse e prove nei confronti di figli e nipoti da zittire per sempre. In una spirale di violenza sempre più inaudita e inalienabile, quella del periodo più buio della Storia filippina, quella di uno Stato allo sfascio, sfruttato e affamato, in mano a pochi speculatori fedelissimi al regime, senza più alcuno spazio per nessun altro. Nemmeno per se stessi, né per la propria (letterale) altra faccia, in quello tardivo scoprirsi gemelli separati alla nascita di Hector e Bandong, opposti eppure perfettamente complementari come il yin e lo yang, mentre bene e male non hanno più senso né significato, sono solo una questione di punti di vista, sono solo differenti motivazioni, sono solo differenti parti della stessa asfissiante storia innestata nella stessa asfissiante Storia. Come tessere di un mosaico in cui ogni personaggio principale o secondario, ogni piccola e grande sottotrama che lo coinvolge, ogni singolo istante di gioia e di strazio, perfino ogni singolo dialogo, nient’altro fa comporre un quadro impietoso degli anni della legge marziale di Marcos padre, fatto di vecchi colonialisti stupratori e uxoricidi riciclati in imprenditori d’hacienda che commerciano zucchero con gli Stati Uniti e di soldati che allegramente torturano i civili, per ammonire sul presente di Marcos figlio, sulle avvisaglie dei possibili ritorni di fiamma autoritari, sull’appartenenza di sangue a certe famiglie «nate dallo sporco», naturalmente e irrinunciabilmente nocive. Un film (o meglio, una film-novela, interpretata alternando tagalog e inglese dagli attori più in voga del Paese per essere trasmessa sulle reti nazionali) di grida atroci nella notte e di strazianti spari fuori campo, di folli lotte violente per il potere e di nemmeno troppo improvvise coltellate, con cui cercare di aprire gli occhi a una popolazione che non a caso viene rappresentata (anche) nella sua comunità dei ciechi, dai quali il predicatore verrà scacciato e il filosofo non verrà capito. Una storia di violenza fatta di mille volti e di mille storie dall’unico epilogo, nella quale immergersi, accettando di perdere per lungo tempo la bussola nell’apparente confusione ma sapendo poi di ritrovarla quando tutto sarà disvelato e tornerà alla perfezione, nella miriade di personaggi, simboli e situazioni che si affastellano nella selva di linee narrative. Non potrà che terminare con un ultimo canto ormai solitario, disperato eppure ancora ingenuo, dolcissimo, dilaniante. Potente come sanno essere le ondate emotive del miglior cinema di Lav Diaz, che dopo qualche opera sempre riuscita eppure leggermente minore rispetto alle miracolose dilatazioni dei suoi maggiori capolavori, sembrano questa volta essere tornate al pieno della loro forza, trovando la loro definitiva nuova via per strabordare anche in tempi narrativi molto più rapidi e nella sempre maggiore cura fotografica di un digitale raffinatissimo. Che sia l’inizio di una nuova, ulteriore fase di capolavori diaziani?
Marco Romagna