A RUSSIAN YOUTH (2019), di Alexander Zolotukhin
Sembrano venire da lontano, le immagini di A russian youth. Sembrano venire dagli anni Ottanta di Va’ e vedi, capolavoro umano e bellico di Elem Klimov per molti versi ribaltato da Mozart a Rachmaninov e dalla vista nella (quasi) sordità all’udito nella (totale) cecità, o forse da ancora prima, con quella stessa pasta, quella stessa grana, quegli stessi leggeri graffi di polvere sull’emulsione e quella stessa patina meravigliosamente giallastra del Tarkovskij in Sovcolor di Stalker. Sono immagini sbiadite, ruvide, sporche, eppure profondamente vive e palpabili nel costante moto della loro granulosità. Immagini al contempo concrete e astratte, rese girando quasi in penombra su supporto in super16 ad altissima sensibilità, e poi gonfiate in 35mm ad aumentarne ulteriormente il peso e lo sfrigolante dinamismo prima del definitivo riversamento in digitale. È una scelta estetica ben precisa, quella dell’esordiente classe 1988 Alexander Zolotukhin, allievo della factory di Sokurov che porta al Forum della 69ma Berlinale il suo sorprendente film d’esordio. Una scelta che, attraverso l’immagine, cristallizza la Prima Guerra Mondiale nel tempo innestandola in una nuova e inedita fisicità polverosa, quella delle trincee, quella dei villaggi, quella delle basi militari, e soprattutto quella degli uomini costretti a viverla e a combatterla, con il loro senso del dovere, con il loro spirito di sacrificio, con la più inaspettata umanità che nasce dal loro cameratismo, dal loro salvarsi la vita e aiutarsi a vicenda, dal loro vivere insieme la quotidiana tragedia cercando disperatamente di rimanere se stessi.
Ma, come già accennato, non è tanto l’immagine, pure magnetica e dal fascino almeno a tratti irresistibile nella sua eleganza e nella sua potenza, il vero punto di A russian youth. Quello che più conta e su cui il film più si focalizza è anzi, all’opposto, proprio il non vedere, e quindi gli altri sensi, il tatto che tanto infastidirà chi verrà toccato nell’unico residuo modo per prendere contatto con la realtà e ancor di più l’udito. Verso quel suono che dovrà per forza in qualche modo sostituire la vista che Aleksej, il giovane e lentigginoso protagonista pre-sovietico, perde nel corso di un attacco nazista con il gas, e verso quello prodotto dai musicisti che oggi, parallelamente e in un sapiente montaggio alternato, preparano le Danze Sinfoniche e il Concerto numero 3 per pianoforte e orchestra di Sergej Rachmaninov. Probabilmente il più difficile da eseguire nella storia della musica, simbolo di precisione tecnica, resistenza e abnegazione, impresa titanica per ogni pianista, sua vera e propria guerra quotidiana contro i propri limiti e contro quelli del tempo.
Così come è impresa titanica quella di chi, ormai persa la vista, vuole rimanere nell’esercito a rendersi utile alla causa e a cercare un proprio posto nel mondo e nella società sfruttando al massimo il progressivo affinarsi dell’udito. Senza che importi la reale utilità, senza che importino le reali possibilità di successo. Conta solo esserci, ancora e ancora vivi, nonostante tutto. Conta solo dimostrare a se stessi, ben più che agli altri, di non essere vigliacchi, di non fuggire nemmeno mentre piovono le bombe, di poter sopravvivere pure alla sopraggiunta invalidità, ancora con un proprio ruolo nel mondo e nella truppa militare proprio come ogni suonatore ha il proprio ruolo nell’orchestra, ognuno fondamentale, per quanto esile e affievolito possa essere il suono del suo strumento, nella creazione del muro sonoro, dell’impasto, della forza della musica.
Lo strumento – bellico – di Aleksej, ormai inabile al fucile e al binocolo, diventa un pionieristico macchinario di localizzazione del nemico fatto di due enormi coni orientabili collegati a tubi metallici/auricolari con i quali cercare di amplificare, sentire e segnalare l’arrivo degli aerei nemici, con il quale permettere all’intero campo di mettersi in salvo o per lo meno di provarci, su quel fronte orientale di ripetute sconfitte in battaglia prima di riuscire a vincere la guerra. Una (Prima) Guerra (Mondiale) alla quale il giovane Aleksej, come il più o meno coetaneo e tarkovskiano (L’infanzia di) Ivan o come il Florya che secondo Klimov andava e vedeva nella Seconda, ma forse come tutti noi, è totalmente inadatto. Lui, così energico ed esuberante eppure così fragile e innocente nel suo eterno buio, così candido nel suo allungare le mani per riconoscere chi ha di fronte, così genuino nel suo pudore quando cerca di fare a meno dell’aiuto degli altri, così timido e ambiguo in quegli accenni di omosessualità latente e (im)possibile che costantemente lo avvicinano al commilitone che più lo prende a cuore.
Lui, così indifeso quando vaga per le trincee fra (poca) comprensione, (molto) fastidio e (relativi) disastri, o quando la falsa carità cristiana dei sacerdoti fingerà di strapparlo alla sua autoimposta missione per, in sostanza, tradirlo. Lui, così consapevole e amaramente rassegnato quando, soldato semplice e non vedente, sbaglierà tavolo sedendosi per sbaglio a quello degli ufficiali, nel cercare di rimediare all’errore verserà la minestra su un decorato superiore e poi non potrà fare altro che subire, senza la minima pietà, senza la minima sensibilità, senza la minima comprensione, le ripetute bacchettate di punizione sulle mani. Per poi tornare, da buona pedina dello scacchiere, da buon suonatore nell’orchestra, al suo dovere, in postazione a scrutare i suoni del cielo mentre il Rach3, innestando il passato nel presente e forse nel futuro dell’atemporalità della musica classica, ben più che una colonna sonora si pone come una vera e propria cassa di risonanza metaforica, che con le sue sovrapposizioni e sospensioni brechtiane scava nel suono, nel senso dell’udito e nell’unione di differenti timbri per giungere alla melodia, cercando e trovando una lirica di immagini e musica in cui innestare la guerra e soprattutto l’uomo, ancora una volta solo di fronte al rutilare degli eventi e all’orrida ingiustizia bellica.
Proprio mentre in patria gli zar stavano per cadere di fronte all’avanzata dei Soviet, e quindi di quel Popolo del quale A russian youth si pone come ode, sul fronte gli uomini erano costretti a confrontarsi, a convivere, a soffrire insieme e a fare quotidianamente i conti con la vulnerabilità dei propri corpi. Consci di combattere uno scontro impari per numero e potenzialità, amaramente destinati alla sconfitta e alla sofferenza, ma forse anche a quel momento di reale coesione e passione condivisa anche nella tragedia, anche nel male. In un’unione a suo modo melodica, senza la quale sarebbe impossibile la stessa unica speranza. Alexander Zolotukhin scava negli anni Dieci per cercare l’umanità dei soldati e dei villaggi, per scandagliare i reali effetti del conflitto sul quotidiano e sulla popolazione, per mettere in scena la disponibilità, l’uguaglianza, il ritrovarsi insieme, ogni giorno, a combattere contro la paura e contro le proprie debolezze. Mentre, sull’altra faccia della medaglia, inevitabilmente deflagrano l’ingiustizia, le gerarchie, la paura, i tradimenti, la goffaggine, gli attacchi nemici con gli occhi che bruciano e non torneranno mai più, i bombardamenti che arrivano puntuali nonostante l’allarme, le esplosioni, la devastazione e l’arresto, e poi il crescendo di sudore del pianista che, ipnotico e quasi ipnotizzato, finalmente esegue il Rach3 dall’inizio alla fine, senza più errori e senza più interruzioni da parte del direttore d’orchestra.
Marco Romagna