A PORTUGUESA (2018), di Rita Azevedo Gomes
«Quasi ogni prima passione è di breve durata e lascia dietro di sé un gusto d’amaro»
Robert Musil, I turbamenti del giovane Törless
Il contatto fra il cinema portoghese e la letteratura è sempre stato essenziale, illuminante e straordinario. La stessa Rita Azevedo Gomes ha affrontato, in senso molto più espanso del “portare al cinema”, testi importanti e imponenti – in ultimo, prima di questo film, le corrispondenze tra Sophia de Mello Breyner Andresen e Jorge de Sena – cercandone altre traiettorie, scrutando fra le righe alla ricerca di ciò che era rimasto celato in mezzo alle pagine. Esemplare dunque la sua scelta di guardare alle Tre Donne (1924) di Robert Musil, con la continua deriva di mistificazioni e metafore dello scrittore austriaco, con la sua deliberata ricostruzione di tempi, spazi, personaggi e luoghi che diventano simbolo della condizione umana. E poi l’amore, spazio di ristrutturazione della distanza come della memoria, essenza di questa storia circolare e infinita in cui ci troviamo incapsulati e abbagliati. Presentato nel Forum della Berlinale a quasi un anno dalla sua realizzazione, A Portuguesa appare come film alieno, di mirabile ricostruzione (a partire dalle location disperse nel territorio lusitano ma così simili al decadente, come il romanticismo che rappresenta il castello di Von Ketten) di ambienti, impressioni e sinestesie. Ma, allo stesso modo, ne è anche il superamento. Quei paesaggi cupi e immersi nella nebbia diventano improvvisamente luminosi e bagnati dal sole, fra la solitudine e l’attesa. Nel sottilissimo, esemplare, lavoro della Gomes sono i gesti minimi e gli sguardi profondi a descrivere la storia, frammento per frammento. A iniziare da quella della Portoghese, questa ragazza innamorata e confinata, inizialmente preda del suo destino e poi aperta al potente spettacolo del mondo, ai suoi misteri e ai suoi segreti. A fianco a lei il tutto continua a sgretolarsi, in ogni battaglia e in ogni guerra, dramma dopo dramma. Ma siamo sicuri che in scena ci sia davvero solo il passato?
Siamo nel Medioevo, quello instabile e caotico. La giovane e affascinante moglie portoghese di Lord von Ketten, dopo un lungo viaggio di nozze, si stabilisce in un vecchio castello nei pressi del Brennero. Lui è pronto per tornare in guerra, a lottare per le sue terre contro il vescovo di Trento, mentre lei rimane confinata lì per undici lunghi anni (con le saltuarie visite del cugino “eretico”, al quale qualcuno pensa come a un amante). La prima scena del film vede Ingrid Caven recitare Unter den Linden (Sotto il tiglio) del poeta lirico medievale Walther von der Vogelweide, e siamo così calati nel pieno di un dramma classico, di cui lei è narratrice e traghettatrice. In questo quadro, dominato dal passaggio del tempo e dalla natura, gli esseri viventi (animali compresi, quasi comprimari della scena) si muovono lentamente, quasi riflettendo sulla fragile bellezza di una vita che non può contemplare la guerra. Eppure l’urgenza dell’autodistruzione è così vicina da portare lo stesso Lord a un passo dalla morte – donando al film scene di straordinario lirismo – nell’apparenza del suo essere igiene del mondo. Nel frattempo la nostra Portoghese (una splendida, rossa e pallidissima, Clara Riedenstein) crea una sua realtà-altra, straordinariamente poetica e sospesa, panteistica e (forse) eretica. Legge, canta, suona, balla, nuota e cavalca nella foresta, in attesa di poter tornare a giocare all’amore fra sguardi di seduzione e maliziose ritrosie. Ogni atto è un quadro, un appunto, l’impressione di una figura in moto nella natura astenica del paesaggio. Non c’è il cielo e non c’è nemmeno il mare che appartenevano ai Lusiadi, ma c’è uno spazio mentale espanso, reinventato e trasfigurato, come un’ode alla più tenera bellezza e alla leggera speranza che oltrepassano il buio di quella civiltà per dare un senso a tutta un’esistenza, vissuta sulle soglie dell’abisso. E, proprio così, il film si dissolve in una ciclicità ellittica che non vuole dare ordine al mondo, ma solo un appiglio. La vita continua, nessuno sa come, ma la trasformazione è solo l’apparenza.
Rita Azevedo Gomes lavora su questo film con una sensibilità straordinaria, in parallelo alla fisicità della scrittura di Musil (come quella della sua protagonista) per la costruzione di un sublime immaginario di suggestioni articolate e misteriose. Nel rapporto tra maschile e femminile, tra guerra ed amore, tra realtà e sogno – «Arma virumque cano», oggi come ieri e ieri l’altro. In questa serie, apparentemente infinita, di quelle (e molte altre) dicotomie ci restituisce il senso di un cinema antico, distante e astratto solo come quei capolavori di modernismo con cui il linguaggio filmico si sviluppò dopo le Nouvelle Vague(s) d/nel mondo. C’è, senza dubbio, la lezione di Manoel De Oliveira (anche l’ultimo, quello riscritto dall’amica e narratrice Augustina Bess-Luis), c’è quella di Ruiz e della Sarmiento, c’è quella di un cinema dalla bellezza accecante e proprio per questo oramai (im)possibile nel suo esercizio, nella sua esposizione onirica di flagranze e impressioni. Un cinema forse ormai senza (più) spazio, senza comprensione, senza ascolto. Dalla splendida fotografia del veterano Acácio De Almeida all’utilizzo della parola come vortice sinestetico dell’universo, A Portuguesa è un film tanto minimale quanto totalizzante. Vicino a una chiave pittorica rinascimentale e prospettica (da Caravaggio ai fiamminghi), in cui la luce è la materia fondamentale nel disegnare le varie gradazioni di colore (il rosso che si confonde con il giallo d’ambra, il blu di Prussia che spesso vira nel verde mimetico dei prati). I fantasmi, di cui è disseminato quel paesaggio emozionale e immersivo anche al cospetto della natura, sono l’enigma di una grande illusione spiazzante, in cui il tempo interiore può (ri)vivere nell’atto di guardare un piano della realtà definito da una personalissima logica dell’anima. Quello della Azevedo Gomes non è un film di ricostruzione, lascia la guerra pressoché in fuoricampo – con quel meraviglioso campo lungo in cui dal margine dell’inquadratura compaiono i vivi a onorare i morti in primo piano, metafora della dispersione e della disperazione – creando un movimento continuo, esteticamente e apparentemente immobile, della nostra fragilità in cui l’esistere è un turbinio di emozioni senza apparente spiegazione. Pulsa la malinconia, emerge l’ossessione dell’oblio, brucia il dolore di uno struggimento che fa parte della fisicità di quella scrittura filmica straniante e ipnotica, che solo nel desiderio può trovare la sua rivelazione. E poi rimane lei, la nostra dolce ragazza Portoghese, angelicata e fluttuante nella sua solitudine apparente come un’illusione. Rimane la trasformazione della sua esistenza in narrazione per poter resistere al dramma di questo mondo, di queste vite, di queste anime che vivono nel male. La libertà del vivere sconfina in quella del filmare. Come non pensare all’oggi? Al nostro dramma, alla nostra totale incapacità di immaginare qualcosa di diverso, e in questo modo, finalmente, (ri)vederlo.
Erik Negro