A MOSCA CIECA (1966), di Romano Scavolini
Torniamo indietro nel tempo. È il 1966. Il cinema è in un magma di cambiamento climatico. Andrej Rublëv di Tarkovskij sconvolge la censura sovietica, Blowup viene paragonato a Quarto Potere (1941) per la sua modernità, film come Persona di Bergman e Au Hasard Balthazar di Bresson rendono ancora più risonanti i già ben consolidati rispettivi autori e Le margheritine porta la Nová vlna a livelli di grandezza inimmaginabili e per molti imprevedibili. In generale sono sempre le “nuove onde” a prendere sempre più piede: nel Regno Unito c’era per esempio Losey che tre anni dopo l’immenso Il servo aveva diretto Modesty Blaise, e in Germania c’erano i primi film del Nuovo Cinema Tedesco del dopo-dopoguerra, con gli esordi di Herzog (per la precisione il cortometraggio La difesa esemplare della fortezza di Deutschkreutz) e di Fassbinder (This Night, Il vagabondo e Il piccolo caos); e poi, dulcis in fundo, la Francia di Godard (Il maschio e la femmina), Chabrol (La linea di demarcazione), Rivette (il capolavoro La religieuse), Truffaut (con un ‘unicum’ nella sua filmografia, Fahrenheit 451), Resnais (La guerra è finita), Marker (Si j’avais quatre dromadaires), Agnès Varda (Les créatures) e l’esordio dell’erede Garrel (Anémone). In Italia, escluso Antonioni che con i suoi internazionalismi universali è un caso a parte, nascevano grandi film di culto come: la conclusione della trilogia dell’uomo senza nome di Leone ovvero Il Buono Il Brutto e il Cattivo, il Django di Corbucci, il film collettivo Le Fate diretto da Monicelli, Salce, Pietrangeli e Bolognini con tra gli sceneggiatori pure Tonino Guerra, il meraviglioso L’armata Brancaleone e l’alleanza Pasolini-Davoli-Totò con il politicissimo Uccellacci e Uccellini; regnava forse il cinema di genere, ma nasceva anche il cinema politico italiano dopo il Salvatore Giuliano (1962) di Rosi, che aprì la porta a uno degli apici nostrani dell’anno, La battaglia di Algeri di Pontecorvo, e ad autori come Elio Petri e Lina Wertmüller. Ma non c’era solo l’Europa, negli U.S.A. c’erano gli inizi del Rinascimento di Hollywood con i primi due film di Mike Nichols e in Giappone la Nuberu Bagu capeggiata da Nagisa Oshima, Kaneto Shindo, Shohei Imamura, Hiroshi Teshigahara, Masao Adachi, Seijun Suzuki e Masao Adachi, con in particolare in quel lontano e incredibile anno i film The Pornographers, Tokyo Drifters, The Face of Another e Violence at Noon. I rinnovamenti erano già cominciati da qualche anno, probabilmente, ma se è vero, come dice Schrader nel corto di Venezia 70 – Future Reloaded nel 2013 di The Canyons, che non si può fare un film di rivolta in mezzo a una rivoluzione, allora il 1966 diventa troppo importante come transizione nella grandezza di un decennio in cui, come nel successivo o anche di più, la distinzione tra il sottobosco underground autoriale/sperimentale e il cinema per le masse della storia del Cinema sembrava a volte non avere distinzioni. Tuttavia, il mondo più sconosciuto del cinema a volte è destinato a rimanere tale attraverso il tempo, a causa di eccessivi sperimentalismi, exploit intellettuali pericolosi o censura.
Qui subentra il film. Il lungometraggio d’esordio di Romano Scavolini, A mosca cieca, è un qualcosa di totalmente alieno dal panorama di quegli anni, nel senso che pur prendendo influenze dalle rivoluzioni filmiche di quegli anni (in particolare il montaggio di Resnais e la Nuberu Bagu, da Oshima fino soprattutto a, come affermato dallo stesso regista, Shindo), nel panorama italiano non ci fu niente del genere: si tratta di un caso davvero improponibile per unicità, con tra i pochi altri casi di tale libertà (quasi sconosciuta a noi oggi) film come L’urlo (1968) di Tinto Brass. Portato al Cinema Ritrovato dopo una storia di restauro complessissima, in cui, tra vari passaggi dal 16mm al 35mm consigliati da Moravia al regista ai tempi, molto è andato perso – e sostanzialmente il regista, per riportare l’opera in una nuova versione completa in un dignitosissimo 2K (che perde l’equilibrio solo sul finale preso da un negativo filtro seppia in super 8 di cui è snaturato il formato), ha dovuto compiere una vera e propria avventura. Il primissimo montaggio del film, con gli stessi ritmi, sarebbe durato 6 ore; il secondo montaggio quasi 3 ore, e quest’ultimo, definitivo, meno di un’ora e mezza, introvabile al di fuori di questo restauro per la cui distribuzione Donatello Fumarola con Zomia sta combattendo insieme a Scavolini. Quando Godard dice che «in un film tutto quel che serve sono una ragazza e una pistola», allora A mosca cieca rientra pienamente in questa regola, girando attorno a questi due poli con eleganza ma anche con un utilizzo del montaggio totalmente innovativo e complesso. La pistola è un simbolo a cui gira attorno buona parte dell’opera e della sua realtà, è un oggetto meccanico attraverso le cui pulsioni tecnologiche e disumane viene caratterizzato il protagonista Carlo: un uomo “Adamitico” nell’essenza e “pre-Adamitico” nella coscienza, seguendo le parole dell’autore stesso, alla ricerca, all’interno dei propri istinti, di uno spazio in un mondo alienante che lo abbandona nella propria condizione di derelitto, non curandosi delle sue necessità. La pistola parte dalle immagini fumettistiche, nasce come riflesso in potenza (in crescendo) destinato a diventare in atto grazie alla prepotenza della cultura pop, con le immagini comuni che ritornano nello spazio-tempo confuso del film in continuazione, ricordando un’ossessione, un ripetersi di certi simboli anche attraverso un mondo in evoluzione grazie alle finestre create dagli schermi e dalle ossessioni dei semplici cittadini, dell’uomo normale, che diventa Carlo o che forse si rivela come Carlo, somigliante a Carlo; o sociopatico e psicolabile come Carlo, che, giunto in possesso dell’arma, fantastica sull’omicidio del padre, di un amico, di un carrozziere. Ma non della propria amata ragazza, che abbraccia e ama con un affetto scomposto che è lo stesso che Diego prova verso Nadine nel succitato La guerra è finita.
Il film poi è praticamente muto per tutta la sua durata: si contempla Carlo attraverso inquadrature lunghe e corte, non per creare immedesimazione quanto per creare riflessione e specchio tra spettatore e personaggio, e non si sente il bisogno dell’ascoltare le parole che pronuncia. L’audio del film è composto quasi interamente dalle musiche elettroniche di Vittorio Gelmetti, già celebre per un brano da lui composto per Deserto Rosso (1964) di Antonioni, mentre il video è un prorompente e continuo montage che mischia primi piani di dettagli, cinéma vérité, viaggi in uno spazio inconscio (più che onirico) di possibilità e poi vera e propria narrazione, ma con ritmi che sempre sono pronti a riavvolgersi. E poi, «a proposito degli effetti speciali», come direbbe Grifi; effetti speciali che sono scritte sulle immagini, sulla pellicola, oppure tra un’inquadratura e l’altra con frame anche colmi con i buchi del rullo precedente. Scritte di formule matematiche, punte poetiche, frecce, spirali che convergono verso un misterioso centro (decentrato?), riferimenti alla filosofia del biologo socialista Jacques Monod; nonostante Scavolini abbia detto al sottoscritto di non aver visto Trattato di melma e d’eternità (1951), il manifesto del Lettrismo firmato da Isidore Isou, quando gliel’ho chiesto verso l’uscita dal cinema dopo il breve ma intenso Q&A dopo la proiezione in Sala Scorsese alla Cineteca Lumiére, si sente un po’ la stessa spinta alla rinascita attraverso la distruzione. “Graffiare la pellicola” per creare un nuovo linguaggio, una “discrepante Visione” anticonvenzionale che possa usare nuove parole, nuove sillabe, nuovi silenzi – con la voce che spiega senza spiegare, mentre cinema e realtà si inseguono per le strade, con gli stessi ritmi decostruiti. E si va verso un lapidario cartello che recita “LA MORTE”, riportando alla mente La passione di Giovanna d’Arco (1928) di Dreyer ma anche volendo la citazione a esso in Questa è la mia vita (1962) di Godard, seguito da una corsa contro il tempo e contro il mondo, una specie di frenetica ricerca nell’immagine di una libertà che superi i limiti dell’uomo e del cinema, come cercando di sfogare attraverso il movimento il problema, come in un I 400 Colpi (1958) maturato e inconsciamente metamorfizzatosi in un qualcosa di più violento, in uno sparo “a mosca cieca” sulla folla. E il finale, quel ridente, sguaiato, ironico e nel contempo crudelissimo pseudo-mini-documentario in super 8 con protagonista l’attrice del film Laura Troschel durante la celebrazione del suo matrimonio con Pippo Franco, riporta sagacemente alla realtà e alla sua incoerenza, alla parte gioiosa dell’esistenza che sempre può sembrare voler incombere sulla scura compresenza caotica di queste inquadrature, di queste grida mute. Girato da Scavolini quando aveva solo 26 anni, questo film scomposto e più che mai lontano dalle categorizzazioni della critica cinematografica borghese ha creato un film-morte che è anche film-vita, un film-uomo che è anche un film-mondo, un film atemporale che è anche un film pecora nera figlio di una società che non lo poteva e/o non riusciva ad accettare la sua esistenza. Ad libitum attraverso gli schermi.
Nicola Settis