A LETTER TO A FRIEND IN GAZA / A TRAMWAY IN JERUSALEM (2018), di Amos Gitai
«…Mentre dormi e conti le stelle, pensa agli altri (coloro che non hanno dove dormire).
Mentre ti liberi con una metafora, pensa agli altri (coloro che hanno perso il diritto alla parola).
Mentre pensi agli altri lontani, pensa a te stesso (Di’: “Se potessi essere una candela nel buio”)»Mahmoud Darwish, Pensa agli altri
Si apre con le splendide parole di Mahmoud Darwish quest’ultimo dittico di Amos Gitai, presentato a Venezia75 e teso alla ricerca di nuove traiettorie di un territorio che continua a esplorare mirabilmente, ridefinendone i confini poetici laddove quelli politici rimangono un nodo inestricabile. Proprio da quelle parole – e da questi confini – nasce il bisogno del grande regista israeliano di scrivere una (video)lettera come A Letter to a friend in Gaza, che sarebbe riduttivo definire cortometraggio. Di mezzo c’è Camus, destrutturato a più voci e con continue prospettive ribaltate, quale spina dorsale del lavoro che saranno proprio la parole dell’autore a chiudere. Il muro appare insormontabile, la camera solo nella sua completa verticalità riesce a guardare un frammento di cielo. In quello spazio si esercita la parola, in una messa in scena minima e quanto mai ampia, nella cross-medialità di un autore che trova anche nel web l’urgenza di un’immagine che possa comunicare un’esigenza. Il punto è il solito, ovvero: quando si smetterà a sparare nel lembo di terra più martoriato del pianeta? Ed ecco il Gitai astratto che gioca con svariati canali e sovraimpressioni, e si sofferma sul rischio che l’emulazione di quel problema renderà inestirpabile il problema stesso. Solo il cambiare lo sguardo può interrompere quella striscia irrazionale di sangue che porta un gruppo di soldati israeliani felicitarsi per l’uccisione di un militante palestinese verosimilmente disarmato. Non è mai tardi per porsi la domanda, ammesso che si abbia il coraggio di ammetterla. Ecco il senso della lettera, di qualcosa a cui ci si aspetta una risposta, e che allo stesso modo possa ampliare un dialogo troppe volte stroncato dalle armi proprio nel momento in cui una piccola svolta appariva possibile.
Lontano da questa traccia, ma quanto mai legato, c’è A Tramway in Jerusalem. Quasi una sit-com, esperimento in presa diretta con tanto di orario della giornata in cui la gente di Gerusalemme sale sul tram per attraversare uno spazio, e così la propria giornata. Sono ventiquattr’ore mai lineari, in cui migliaia di persone si scontrano mettendo in scena i loro problemi e le loro speranze, in quel gran teatro che è il trasporto pubblico. È un film (solo) apparentemente minore e a tratti leggero, un piccolo viaggio che mostra con semplicità visiva (e sofisticazione del dialogo) le problematiche e le assurdità di un contesto, quello israeliano-palestinese, che appare sempre più contraddittorio e inspiegabile ai nostri occhi. Il movimento, lento e quasi disordinato, disegna una geografia assai particolare della capitale contesa da est verso ovest., mentre scorrono le piccole storie e i frammenti della quotidianità, come fossero un mosaico scomposto a tratteggiare il paesaggio umano di una città unica e straordinaria, che solo la sovraesposizione di una delle proprie identità sembra a volte far naufragare. Sono sketch e piccoli ritratti, è umorismo, è persino (t)rap. Pippo Delbono è un parroco e Mathieu Amalric è un turista che con in figlioletto vive l’assurdità della sequenza finale, in cui le bellezze di Israele sono, per gli autoctoni, declinate nel loro possente esercito. Non ci sono vie di fuga, e forse nemmeno ci sono direzioni. Sulla linea rossa che unisce Shuafat e Bait Hanina a Mount Herzl ognuno ha la sua strada, anche se spesso pare averla persa. Alcuni semafori, quasi simbolici, di dove (anche nella sua mappatura) la città incrocia ebraismo con cristianesimo e islam, mentre le culture si mescolano continuamente e restituiscono un’appartenenza assi complessa e problematizzata. Nella ricchezza di questi scambi per Gitai resiste l’unicità di Gerusalemme, quasi come unica resistenza possibile a una barbarie del pensiero unico, del nemico da annientare, di un territorio da controllare in maniera anche drammatica. Ogni città, del resto, ha il suo movimento. Anche quando solo scompare dietro ad un finestrino.
Sull’asse Gaza/Gerusalemme Gitai ci invita a nuovi stimoli, lontani dall’opera che ci raccontava gli ultimi giorni di Rabin come dal film in cui parlava del suo ritorno in Israele dopo l’esilio (e ancora più distanti dalla splendida istallazione berlinese, The Law of the Pursuer). Di mezzo c’è sempre la ridiscussione di come un’immagine abbia la coscienza di lavorare su un substrato etico e politico sempre più critico, ma questa volta sono i linguaggi a cercare una via diversa e più trasversale. Se la lettera è uno specifico filmico già affrontato più volte da Gitai (anche se qui con elementi, per certi versi, assai innovativi), l’itinerario di viaggio scomposto negli incontri da tram ci permette di ammirare un autore nuovo, capace ancora una volta di modulare la sua esperienza personale declinandola in varie oggettività simbolo di quella pluralità tanto e da sempre agognata. Gitai semplifica il complesso, o forse ne dona solo un’altra angolazione possibile, dalla quale interrogarci tutti soprattutto attraverso una parola che non commenta le immagini ma le determina – nel primo ne costruisce l’impalcatura, nel secondo lo spazio d’esercizio. Per questi, e per altri motivi, il cinema di Gitai è più che mai vivo e pulsante, e cambia modalità di espressione pur legato fortemente a una territorialità cosparsa di criticità; sia esso un saggio filmico in cui la teoria accompagna la presentazione, o sia esso un oggetto filmico quasi seriale, apparentemente distante dalla filmografia del regista israeliano. Me è proprio questa specularità tra i due film, come afferma lo stesso Gitai, che crea una nuova dialettica del/sul quotidiano; quello costantemente in pericolo e quello che potrebbe diventarlo, con il rischio che l’esorcizzare ciò (vedi il rapporto che molti israealiani hanno con l’idea del conflitto) possa esser un altro possibile detonatore. L’affermazione di tutte queste diversità, questa coerenza nella non omogeneità, sono alla base della resistenza continua di una pratica unica che confronta continuamente l’alto (oltre a Darwish e Camus pure Brecht ed una visione benjaminiana della realtà da riprodurre nella sua sequenzialità) con il basso di un popolo con mille identità diverse, che percorre le coordinate cittadine sullo stesso tram. Così questo dittico appare come un altro passo, probabilmente non tra i più significativi, ma comunque da considerare in un insieme, in uno spazio aperto e libero di discussione, aspettando che i tempi possano finalmente cambiare.
Erik Negro