E’ un film su un martire e su un martirio, A Hidden Life. Sulla contrapposizione tra Bene e Male assoluto, tra due idee e (soprattutto) due uomini, nati in Austria a una trentina di km di distanza l’uno dall’altro: Franz Jägerstätter, da Sankt Radegund, e Adolf Hitler, da Braunau am Inn. Era proprio Radegund, inizialmente, il titolo di lavorazione dell’ultimo film di Terrence Malick, passato in Concorso a Cannes 2019 e ora, prima dell’uscita sala programmata in aprile, proiettato in un teatro Rossetti gremito in ogni ordine di posti in apertura della 31ma edizione del Trieste Film Festival. Girato (anche) tra le montagne italiane, tra Bressanone, Brunico e Sappada, Malick ambienta a Radegund la sua personale versione dell’Eden, tra il duro lavoro dei campi e i paesaggi abbacinanti, la scansione delle stagioni e l’amore familiare di Franz (August Diehl) e Franziska detta Fani (Valerie Pachner), pedinandoli con grandangoli esasperati e steady insistite, marchio di fabbrica del cineasta di Ottawa, Illinois (ma texano d’adozione). Malick torna alla seconda guerra mondiale dopo La sottile linea rossa ma, questa volta, sul fronte europeo, e tenendosene a debita distanza. Franz rifiuta di votare l’Anschluss e di giurare fedeltà al Cancelliere tedesco di origini austriache, e assume su di sé tutte le conseguenze del suo gesto, coraggioso certo, ma anche folle e (apparentemente) insensato. Tutta la piccola comunità cerca di convincerlo a desistere dal suo proposito, a piegarsi, a rassegnarsi alla sostanziale inutilità del gesto (del) singolo. E’ la parte più riuscita dell’opera, il progressivo scivolamento della società rurale nell’odio, nella diffidenza, nell’ideologia nazista insomma, per dirla senza mezzi termini. L’Uno che rifiuta, che abiura, che non accetta l’omologazione, è uno scandalo, un dito teso contro il conformismo, un atto d’accusa inaccettabile per tutti, dai maggiorenti all’ultimo dei lavoratori.
Franz prende la sua decisione in modo da ottemperare e rispettare le sue fedi: il cattolicesimo e, più ancora che la sua famiglia, l’amore per sua moglie. Quando le nuvole arrivano all’orizzonte (qui Malick è letterale), quando la guerra scatenata da quell’uomo che abbiamo visto all’inizio dell’opera in filmati d’epoca con i suoi baffetti e il passo d’oca di masse adoranti arriva anche lì, sulle montagne, nel Paradiso in Terra, sottrarsi non è più possibile. O, per converso, può divenire l’unica scelta possibile. Il rovello interiore di Franz, il suo interrogare le autorità religiose è mostrato, ripetutamente, ma le motivazioni rimangono sue, profonde, inconosciute. Inevitabile passo indietro di fronte al Mistero, o poca capacità di penetrarlo con la macchina da presa: gl’infiniti dibattiti tra detrattori ed esegeti, del film e del regista, possono cominciare da qui e mai avranno un vincitore. In una contrapposizione che ha più di qualcosa in comune con l’epica shyamali(cki)ana di Unbreakable, Franz sente di dover compensare il Male assoluto nato lì, a poca distanza da lui, con un gesto estremo, supremo. La sofferenza della prigionia, sempre più violenta, sempre più abietta, pian piano scivola addosso al Nostro che, da quando smette di pensare insistentemente alla propria sopravvivenza, comincia a entrare in una pace “mistica” dei sensi e degli affanni, mentre lo spirito diventa inscalfibile anche se la carne è scalfita eccome, martoriata, umiliata. Due compagni di cella, un demone e un angelo, gli si fanno prossimi: il primo lo schernisce e tenta di farlo desistere dal suo proposito, il secondo evoca paesaggi sconfinati, al di fuori delle mura della prigione, canti, serenità. Un’ultima visita della moglie, un processo farsa (nel ruolo del giudice, all’ultimo ruolo della carriera, il compianto Bruno Ganz) e poi l’inferno, o quantomeno la sua anticamera: Franz è condannato al patibolo per il suo “alto tradimento”, e l’esecuzione è portata a termine da un misterioso uomo con un cilindro nero, proiezione concreta dell’idea e della paura della Morte, boia con ghigliottina, in un delirio che spezza le ultime catene del reale e precipita il protagonista nel martirio. Malick, immediatamente dopo, torna ad inquadrare il cielo, sempre presente sullo sfondo in tutte le inquadrature, tranne che negli angusti interni carcerari. Il passaggio è compiuto, la guerra finirà di lì a un anno e mezzo, la “vita nascosta” (il titolo viene da un passaggio di George Eliot, il finale di Middlemarch) si è fatta testimonianza di fede e coraggio, e papa Ratzinger, anni dopo, riconoscerà il martirio con la beatificazione.
Un gesto così forte, simbolico, radicale, avrebbe forse avuto bisogno di una rappresentazione cinematografica altrettanto estrema; Malick, invece, contempla estatico il Creato, dentro e fuori il suo film, cerca reminiscenze bressoniane riuscendo solo a riaffermare se stesso, la sua visione e il suo cinema, che torna narrativo come non era più stato dai tempi di New World ma conferma appieno lo stile registico del suo ultimo, artisticamente fecondo, periodo, che, dalla Palma d’Oro di The Tree of Life in poi, lo ha visto intraprendere un percorso estetico/filosofico magniloquente, che depotenzia però nell’eccessiva iterazione la sua importanza e necessità, soprattutto quando in scena (come in Knight of Cups e Song To Song) ci sono altoborghesi tormentati che si muovono in case da manuale di architettura in inquadrature sempre belle, TROPPO belle, una bulimia estatica che può lasciare senza fiato, annichiliti, poi un po’ stanchi, infine annoiati. La straordinaria universalità del discorso iniziato con Tree of Life, dove nell’amore supremo della madre/Terra tutti ci riconosciamo, e proseguito con la variazione sul tema dell’amore sensuale di To the Wonder, non poteva che dirigersi (dopo i due, totalmente inessenziali a parere di chi scrive, episodi sopranominati e un documentario mai ufficialmente distribuito in Italia, Voyage of Time, che in forma di bignami riassumeva intenzioni ed elucubrazioni malickiane) verso l’Assoluto, e con il prossimo film si arriverà alla messa in scena di passaggi evangelici. Malick, nel mettere in scena questa “vita nascosta”, dilata a dismisura il segmento centrale, quando i due sposi, uno in carcere, l’altra a casa, continuano ad interagire con la stessa cadenza epistolare di cui è puntellato tutto il film, in voice over, un carteggio realmente esistito, ritrovato e pubblicato dallo stesso Gordon Zahn, l’americano che, visitando Sankt Radegund negli anni Settanta, scoprì e portò alla luce questa storia. Il terzo vertice del triangolo diventa la Natura, ancora una volta, immota, indifferente alle piccole e grandi miserie umane. In questo dialogo a tre c’era, nella testa del regista, il vero cuore dell’opera, mentre nello scorrere delle tre (interminabili) ore risulta invece il segmento meno incisivo, inutilmente insistito, che diluisce la tensione mistico/ideologica fin lì costruita, faticosamente, pezzo dopo pezzo.
Comprato da Fox (e quindi dalla Disney) probabilmente in ottica Oscar, A Hidden Life è stato bellamente ignorato dall’Academy. Poteva forse meritare una segnalazione la fotografia di Jörg Widmer, neofita nel cinema malickiano ed erede di giganti del calibro di Nestor Almendros e Emmanuel Lubezki, una vocazione “naturalista” ottenuta senza mai girare in pieno sole, nell’ora “magica” prima del tramonto e anche all’alba, connotando quest’ultima in senso significante, in un finale in levare, fin troppo. Mai come questa volta, è una questione di gusti: l’attitudine “progressive” di Malick, il suo insistito barocchismo compie qualche passo indietro, tiene ferma la forma per irrobustire la sostanza, chi di solito apprezza non potrà che applaudire. Chi scrive, invece, ha adorato il Nostro fino a To the Wonder, per poi rimanere sempre più perplesso, sempre più distaccato, alla disperata ricerca di una stilla dell’immane talento che fu, ormai scaduto in una maniera a tratti involuta, spesso irritante. Un ultimo cenno per la particolare scelta linguistica: Franz e la moglie parlano inglese, e così chiunque si rivolga loro, mentre tutt’intorno si abbaia, più che parlare, tedesco. Straniante, volto a creare una bolla intorno ai protagonisti/simboli/idee, ma anche inevitabile scelta per le vendite internazionali. Inevitabile? Ecco, magari anche solo UNA scelta radicale come quella della lingua originale (c’è davvero qualche appassionato del cinema di Malick spaventato dai sottotitoli?) avrebbe rappresentato una rottura, assimilabile al gesto “rivoluzionario” del suo protagonista. Così invece, al riparo del suo stile, Malick sembra correre pochi rischi, mentre un’ascesi bressoniana richiede radicalità e (un po’ più di) coraggio.
Donato D’Elia