A GHOST STORY (2017), di David Lowery
Il motivo per cui è giusto e sensato che si discuta della qualità effettiva di A Ghost Story è legato a quello che è il suo più probabile difetto: la caratura da classico film indie americano, dimostrata da un’aura di retorica resa evidente dalle scelte musicali, dalla recitazione sottotono, dalla fotografia morbida e dalla tipologia semplicistica di esistenzialismo permeata dal monologo pseudo-nichilista del personaggio interpretato da Ben Frost nella scena della festa, punto di volta del film. Questi blocchi formali possono essere presto e facilmente considerati davvero problematici nel momento in cui vengono identificati come parte di un discorso estetico davvero appartenente solo e soltanto al genere e alla tendenza indie a cui possono far parte per esempio autori come Spike Jonze – il quale è per noi un esempio di autore parzialmente fallimentare, considerato che i suoi esordi semi-brillanti sono in realtà più merito del lavoro di scrittura di Charlie Kaufman e che invece il suo progetto più personale, Lei (2013), è un mélo riuscito a metà in cui il fattore fantascientifico portante ironicamente priva di fascino l’aspetto romantico centrale. Ma se Jonze dà il meglio di sé principalmente attraverso opere più lontane dal cinema in senso stretto come cortometraggi (I’m Here, 2010), video musicali (The Suburbs (2010) degli Arcade Fire o Only One (2015) di Kanye West) e spot commerciali (Kenzo World, 2017), il regista di A Ghost Story, David Lowery, ha esordito come assistente operatore e montatore per lungometraggi davvero indipendenti, di basso profilo, già quasi dimenticati nell’immaginario collettivo. Tuttavia la gavetta in questo ambiente, probabilmente soprattutto a causa del suo notevole lavoro di montaggio in un film in realtà modesto come Upstream Color (2013) di Shane Carruth, l’ha portato presto a debuttare alla regia con un film facilmente commercializzabile e non banalissimo, Ain’t Them Bodies Saints (2013), ricco di iconografia western o del Malick dei film anni ‘70 e di riferimenti originali agli archetipi fondati da Arthur Penn con Bonnie & Clyde (1967). Il suo secondo film è stato invece un grosso rischio produttivo dai risultati felici, un blockbuster 3D fantasy della Disney, Il drago invisibile (2016), remake live action del cartone animato Elliott il drago invisibile (1977) di Don Chaffey. Con due film così drasticamente diversi, è difficile delineare un profilo definito di Lowery come autore, ma una cosa è certa: in entrambi i film c’è un gran cuore, un gran desiderio di raccontare storie, di raccontare personaggi, di ritrovare le radici della bellezza cinematografica anche magari attraverso un’eccessiva semplicità narrativa capace in realtà di rivelare grandi momenti espressivi. In quest’ottica, A Ghost Story diviene un oggetto ancora più curioso, probabilmente proprio in quanto direttamente successivo a Il drago invisibile, poiché invece che proseguire nella direzione di un’ascesa commerciale Lowery a deciso di sprofondare nel proprio intimo, attraverso un racconto che utilizza i ritmi, il formato e le suggestioni di Jauja (2014) di Lisandro Alonso da una parte e i riferimenti estetici di Finisterræ (2010) di Sergio Caballero dall’altra per girare attorno a un discorso le cui radici affondano nella sua esperienza personale, in una vivace discussione avuta con la moglie. E questa scelta non è stata fatta solo per arruffianarsi i cinefili del Sundance, che hanno comunque aiutato a promuovere il film, ma anche per mettere in campo un discorso sull’immagine che non è affatto banale.
La vicenda gira attorno a una coppia composta da un uomo e una donna anonimi, e dunque universali, come Adamo ed Eva o come l’Uomo e la Moglie nell’Aurora (1927) di Murnau, interpretati da Casey Affleck e Rooney Mara, già protagonisti di Ain’t Them Bodies Saints. Abitano in una casa sperduta nel nulla semplicemente a causa della necessità di silenzio e tranquillità di lui, compositore di musica elettronica. A volte si sentono dei rumori, come se la casa fosse infestata da fantasmi. Ma non è un film horror, e Lowery vuole farlo capire da subito, studiando attraverso una fotografia soffice ed espressiva i corpi statuari dei suoi personaggi, illuminandoli come le figure universali che in effetti rappresentano e non come partecipanti a un gioco tragico o al massacro. Il fatto è che la tragedia e il massacro sono destinati a sopraggiungere nel reale, per quanto questo reale possa essere un reale cinematografico, e dunque mistificato. Lui muore in un incidente d’auto appena fuori casa, ma pochi attimi dopo che Lei abbandona l’obitorio, Lui ritorna in vita, con le fattezze di un fantasma (incorporeo, impercettibile, invisibile allo sguardo dell’altro) la cui fisicità è composta da un’iconografia talmente tradizionale da identificare subito questo personaggio non tanto come un fantasma quanto come un’idea di fantasma, o un simbolo di fantasma. Una questione puramente estetica. Di qui in poi, sono solo le immagini a parlare: Lui si aggira per la casa dove Lei sta elaborando il lutto, messo in mostra in maniera drastica e frustrante da una drammatica inquadratura fissa di quasi 5 minuti in cui la donna mangia per intero una torta, piangendo, e corre in bagno a vomitare, tutto sotto lo sguardo silenzioso del marito, ricoperto dal lenzuolo, incapace di interagire. Se consideriamo A Ghost Story un film sulla morte, è ovvio che ci si può ritrovare a essere delusi; rappresentare una fase “post mortem” è sempre un’impresa talmente coraggiosa da rischiare la volgarità (pensiamo al Peter Jackson di Amabili Resti (2010) e a Al di là dei sogni (1998) di Vincent Ward). Lowery imposta il suo discorso più su di una riflessione sul dolore che sconfigge le barriere del tempo, se proprio si deve discutere il film da un punto di vista logico e narrativo. Più probabilmente però il suo interesse si concentra su di una questione di sguardo. Rooney Mara e Casey Affleck, quando sono entrambi nella stessa inquadratura ed entrambi corporei, comunicano con il corpo e con gli occhi. Con l’arrivo dell’incorporeità, lo sguardo smette quasi automaticamente di fissarsi sui corpi: il fantasma diventa protagonista di ogni inquadratura, pallino bianco che diventa centro dell’immagine, elemento noumenico in un reale percepibile effettivamente solo come fenomenico. Vedere il mondo attraverso lo sguardo di un personaggio così poco personale, così lontano dalla visione tradizionale di personaggio, significa vedere il mondo attraverso un non-sguardo che è quello di un’immagine, difatti, morta. L’iconografia del fantasma ormai troppo banale per essere presa sul serio, ma che cerca di resuscitare se stessa. Un viaggio nel tempo, un’immersione all’interno di un monologo nichilista e apocalittico, una necessità di compiere una missione fisica senza avere una fisicità: A Ghost Story cerca il proprio scopo, e, difatti, lo trova. Non è una questione di disperazione umana né tantomeno di necrofilia dell’immagine; Lowery penetra nella propria sensibilità e nella propria necessità cercando di dare uno spazio cinematografico a un qualcosa che è privo di pre-esistenza, privo di essenza. Cerca un contatto tra ciò che è filmabile e ciò che non è filmabile.
E questo contatto è anche il contatto tra il film indipendente e il blockbuster. È un’epoca strana (molti direbbero buia) per quanto riguarda questo conflitto, e basti vedere come molti film hollywoodiani attuali stanno facendo discutere proprio per quanto riguarda questa difficoltà di comprensione e d’interpretazione, spaccando in due la critica e il pubblico. Due esempi interessanti sono quelli di Birdman (2014) di Iñarritu e quello del più recente madre! (2017) di Aronofsky, entrambi film discutibili, probabilmente non riusciti, ma sicuramente è necessario parlarne, parlare proprio di questo limite e di questa battaglia tra generi, che sembra in molti casi non trovare un’identità. Ha senso dire che il discorso registico di Birdman è banale e confuso perché esistono film più belli girati in un unico piano sequenza (v. Arca Russa, 2002) senza i ricattatori giochi di montaggio finto-antonioniani in cui si sono cimentati i montatori Douglas Crise e Stephen Mirrione? Forse sì, ma il problema è più nell’etica reazionaria e pretenziosa di fondo, considerate le altre grandezze tecniche del film (fotografia in interni di Lubezki, movimenti di macchina, recitazione, ritmo di dialogo). Ha senso dire che madre! è un film stolto perché si pone come un’opera che cerca l’interpretazione del pubblico mentre nel tour promozionale del film sia il regista sia l’attrice protagonista Jennifer Lawrence, compagna di Aronofsky, spiegano l’allegoria di fondo? Anche qui, probabilmente sì, ciò però non toglie che il film, per quanto assurdo nella sua scempiaggine grottesca, è coraggioso e in effetti aperto a più interpretazioni da un punto di vista strettamente umano, slegato dall’allegoria biblica che attanaglia in maniera irrecuperabile e plateale il significante. Sulla stessa linea d’onda mediatica e di pre-produzione, A Ghost Story non ha un limite formale o produttivo di questa portata, è un film con attori famosi ma sincero, lirico, lontano da leggi di produzione e di distribuzione concrete e decisive; è un film libero, con uno sguardo diretto verso il cielo stellato come Una storia vera (1999), uno sguardo che cerca finestre per l’assoluto senza avere il coraggio di entrarci, che gioca con i tempi e con i leitmotiv del cinema di genere per costruire una storia d’amore e di lutto impossibile, e che infine flirta con il surrealismo per tentare di dare un compimento a un qualcosa che non può che rimanere irrisolto. In quel capolavoro immane di All That Jazz (1979) di Bob Fosse, a un certo punto il protagonista Joe Gideon, interpretato da Roy Scheider, scappa dalla sala operatoria e si aggira per l’ospedale indossando semplicemente la tunica bianca dei pazienti, più o meno come un fantasma, sicuro di andare diritto in direzione della morte, tematica che occupa buona parte del film in maniera visionaria. Nel suo errare disorientato, Gideon si trova a un certo punto di fronte a un lettino su cui è stesa una vecchia addolorata. La abbraccia, le dice «Per me tu sei la cosa più bella del mondo», e si allontana, lasciandola a sorridere mentre la vita la abbandona. Tra All That Jazz e A Ghost Story c’è sicuramente una distanza qualitativa immane, ma in quella frase e in quel bacio è probabilmente racchiuso il cuore del film di Lowery: una ricerca di bellezza nell’abbandono, nell’assenza di fisicità, nella morte di un’immagine che prima o poi diventerà concreta, un fantasma che prima o poi sarà solo un mero lenzuolo.
Nicola Settis