A partire dal nome wagneriano, Brunhilde Pomsel è l’incarnazione stessa della Germania ariana, in quei deliri nazisti di cui oggi rimane, a 105 anni, l’ultimo tassello ancora vivente. Nata l’11 gennaio 1911, iscritta al partito nazionalsocialista già nei primi Trenta, dal ’42 impiegata come segretaria personale e stenografa di Joseph Goebbels – numero due del Reich, Ministro della Propaganda e poi plenipotenziario sulla guerra totale –, incarcerata poi per cinque anni in una prigione sovietica al termine della guerra e ora libera da 66 anni, nei quali ha continuato tranquillamente a lavorare per la radio tedesca fino al giorno della pensione circondandosi di figli, nipoti e pronipoti. Ancora oggi giura di non aver saputo cosa accadesse nei campi di concentramento fino al momento della sua scarcerazione nel 1950, e nel 2011 balzò alle cronache per aver concesso, appena centenaria, un’intervista al quotidiano tedesco Bild1 in cui affermò di non sentire alcun tipo di fascinazione nei confronti di Goebbels, talmente chiuso e disumano da non aver mai saputo nemmeno il suo nome, e definendolo codardo per il suo suicidio.
La storia di Brunhilde Pomsel è quella di una vita intrecciata a doppio filo con la Storia, vista e vissuta dall’interno, prima fra il pubblico dei comizi dell’“uomo nuovo” Adolf Hitler ai tempi dell’ascesa e poi nelle stanze dei bottoni, china alla macchina da scrivere da cui partivano gli ordini di morte, da cui si instillava scientificamente nei cittadini tedeschi il germe dell’antisemitismo. Eppure Brunhilde Pomsel aveva lavorato per un ebreo, fino alla promessa di accedere allo stipendio buono e sicuro della radio aderendo al partito nazista senza in realtà – così giura – nemmeno conoscerne o comunque senza capirne le ideologie. La sua testimonianza è unica e fondamentale, quella degli unici occhi ancora vivi che hanno davvero visto quello che gli storici cercano di far emergere dagli archivi e dai documenti, portata sullo schermo a otto mani da Christian Krönes, Olaf S. Müller, Roland Schrotthofer e Florian Weigensamer nel film documentario A german life, presentato prima a Visions du Réel, poi al Festival di Monaco e ora al DocLisboa, che si impone sin dalle primissime battute come un documento storico di importanza capitale. Dalle oltre trenta ore di intervista all’ultima pedina rimasta della macchina di potere nazista, i quattro registi hanno estrapolato 113′ nei quali, attraverso i ricordi di Brunhilde Pomsel, vengono ripercorsi vent’anni di Storia in prima persona, emergono lati segreti dei criminali di guerra, trovano posto le massime più note di Herr Doktor Goebbels, di gran lunga l’uomo più acculturato del Reich, affiancati al materiale emerso da un footage straordinario quanto l’intervista, che ha riportato alla luce dagli archivi di Steven Spielberg, del Museo dell’Olocausto di New York e delle cineteche tedesche i filmati del tempo, fra film di propaganda curati da Goebbels, cinegiornali con i suoi spostamenti in giro per l’Europa, l’accoglienza trionfale per le truppe naziste in Austria, la Resistenza polacca, i documenti del Processo di Norimberga e la contro-propaganda con i filmati statunitensi, a volte anche d’animazione, contro lo spauracchio nazista in Europa.
“Quando inizi a mentire, continua a mentire”. Joseph Goebbels
In un bianco e nero meravigliosamente fotografato, sia per una questione ‘filologica’, sia per ‘attaccare’ l’intervista ai filmati d’archivio, sia perché l’opportunistica “german life” di Brunhilde Pomsel forse il colore non lo merita, le rughe dell’anziana che fu segretaria di Goebbels riempiono lo schermo di chiaroscuri, mentre da ogni piega della sua pelle sembra emergere un brandello di Storia. Gli intervistatori non la interrompono, è lei che apparentemente tiene le fila, porta il discorso fra un ricordo e un evento, colorando gli aneddoti e più volte tendendo a giustificarsi. Racconta dei plebisciti del giovane Hitler, del lavoro alla radio, di quegli ultimi 10 marchi spesi come quota associativa al partito prima di 14 giorni di forzato digiuno. Parla del Ministero della Propaganda, delle cifre da lei clamorosamente gonfiate sui soldati tedeschi morti e sulle donne stuprate dall’Armata Rossa per fomentare l’odio della nazione, del viaggio di Goebbels a Venezia e del suo amore per il cane, così assurdo pensando al suo disprezzo per gli “uomini inferiori”. Brunhilde Pomsel ancora oggi arriccia il naso in un’aria schifata quando parla di “persone di altre razze”, o di quando racconta di come l’annunciatore principale ai tempi della radio fosse stato deportato perché omosessuale, ma A german life non è un atto d’accusa nei suoi confronti, non punta il dito contro le scorie nazionalsocialiste ancora presenti nei suoi pensieri, non vuole umiliarla, pressarla, metterla alla gogna. Al contrario, il documentario del quartetto di registi guarda alla sua testimone con tutta l’umanità che a lei è sempre mancata, senza interessarsi troppo alle possibili/probabili colpe dell’anziana né alle sue ammissioni e reticenze, ma tendendo piuttosto alla ricostruzione di un quadro generale che possa formare e mantenere la memoria, facendo un po’ di ulteriore e inedita luce sul periodo più nero della storia dell’umanità e lasciando che la sua omertà e ipocrita autoassoluzione emergano semplicemente come specchio di quelle di un’intera nazione.
Del resto, come testimoniato dall’ultimo lavoro di Sergej Loznitsa, quell’Austerlitz già presentato a Venezia e ora riproposto al DocLisboa in una sorta di dittico strettamente correlato, persino i campi di sterminio sono ormai diventati un’attrazione turistica, in una massificazione e museificazione continua che porta la Storia diventare figurina e cartolina, dimenticando la sua drammaticità e i suoi orrori sotto alla polvere del tempo che passa. Nel momento in cui gli scolari in visita ai campi inquadrati da Loznitsa pensano a “non morire di fame” addentando i loro panini proprio davanti alle camere a gas, e l’orrore della scritta “Arbeit macht frei” è ormai diventato l’occasione per sorridere scattandosi un selfie, A german life si pone come come obiettivo una lotta proprio contro questo processo, rinfrescando la memoria sull’orrore dell’olocausto e sulla necessità di averlo sempre presente per non ripeterlo mai più. Viene mostrata una macchina organizzativa perfetta, una macchina di morte, una macchina di delirio e follia, una macchina criminale raccontata dall’interno e commentata dalle immagini del tempo, interne ed esterne al regime. Per perseguire questo obiettivo, il footage montato è necessariamente duro, violento, atroce, difficile da guardare e da digerire. Ci sono gli orrori nel ghetto di Varsavia, ci sono i cumuli di morti per denutrizione sulle strade, ci sono le camere a gas con gli ultimi strofinii disperati contro il muro di chi stava invano lottando contro la morte, ci sono i filmati nazisti dai ghetti con le illuminazioni studiate per rendere mostruosi i nasi sefarditi e che mostrano il degrado per incolparne le vittime, ci sono i filmati statunitensi dell’arrivo nei campi, che furono i primi mostrati alla Germania dopo la guerra perché credessero a quello che era stato fatto e sviluppassero la propria cultura della vergogna che ancora continua, fra fosse comuni e uomini-spettri scheletrici, agonizzanti e moribondi, scampati al destino peggiore per poche ore grazie alla Liberazione.
“È dalla sofferenza che diventiamo più forti”. Joseph Goebbels
Brunhilde Pomsel, a differenza della segretaria di Hitler Traudl Junge, morta nel 2002 sempre affascinata dal proprio capo, non amava Goebbels: per lei era un lavoro, un’opportunità, “un signore distinto”, una una persona con cui era molto difficile avere a che fare. Ma ricorda, eccome, il suo carisma. “Goebbels non era molto alto, anzi era molto più basso di quanto volesse far apparire”, ricorda la Pomsel. Ma, quando ci fu nel palazzetto dello sport – in orario rigorosamente pomeridiano per evitare gli allarmi aerei che ogni sera, veri o falsi, puntualmente suonavano – il discorso di Goebbels che invitava alla guerra totale, fu lei per prima, insieme alle centinaia di persone presenti, a pendere dalle sue labbra, gridando di volere la guerra in un consenso plebiscitario che, a mente fredda, anche a lei appare oggi impossibile, atroce, assurdo. Obbligata dalle circostanze e dai militari presenti? Forse. Ma in quel momento convinta, eccome!
Fra le braccia tese dell’Austria che accoglieva l’arrivo dei soldati tedeschi come una parata e i palloncini con l’effigie di Hitler – con tanto di cagnolino-Mussolini attaccato al suo stivale – impiccati in Polonia sugli stessi pali sui quali si invitavano a pisciare “solo cani tedeschi”, A german life interroga il passato, mostra gli orrori, dà corpo e cornice ai ricordi. Al momento del suicidio di Hitler, era perfettamente chiaro a tutto l’entourage cosa sarebbe successo: la guerra era finita, e la Germania aveva perso. Brunhilde Pomsel, a differenza di chi stava ben sopra di lei, ebbe almeno la dignità di affrontare il processo e il carcere sovietico, per poi capire di che cosa aveva davvero fatto parte – dice – solo in seguito, scoprendo che Eva, l’amica ebrea con cui Brunhilde era cresciuta, aveva perso la vita proprio in un campo di sterminio. Il suo sguardo introspettivo e retrospettivo è un punto fondamentale dal quale ripartire, la sua ipocrisia agghiacciante è sintomatica dei tempi e della necessità di questo documentario, indagine storica che va portata avanti proprio per il rischio di essere troppo metabolizzata, perdendo la sua efficacia di lezione esemplare. Perché, come la stessa Brunhilde Pomsel dichiara, “Il male esiste. Dio non esiste, ma il diavolo si. E comunque non c’è giustizia, nemmeno la giustizia può esistere”. Esistono i morti, esistono gli orrori, esistono le fosse comuni, esistono le colpe. E dimenticarsi dell’olocausto, prenderne le distanze, lasciarlo come un chicco insignificante nel rutilare della Storia, o peggio ancora riportarlo in auge insieme a quelle stesse insegne naziste che a fine film vanno a fuoco, è ancora oggi un vero e proprio crimine contro la Storia e contro l’umanità. A german life è un film straordinario per interesse storico e sociale, per lucidità e per urgenza, per umanità e strazio. Un film che fa incazzare e commuovere, un film che dovrebbe essere proiettato nelle scuole, nelle case, nei Parlamenti. Un film che rafforza quell’urlo ‘mai più’ ormai troppe volte soffocato dalla crisi economica e dall’ignoranza.
Marco Romagna