A GENTLE CREATURE (2017), di Sergej Loznitsa
Avremmo voluto con tutte le nostre forze parlare dell’ennesimo grande film di Sergej Loznitsa, al ritorno, con A gentle creature, alla finzione a cinque anni da Anime nella nebbia. Avremmo voluto gridare ancora una volta ai quattro venti la grandezza del cineasta ucraino, avremmo voluto inebriarci dei magnifici colori che, dopo il rigoroso bianco e nero degli ultimi due lavori documentari The event e Austerlitz, tornano a impressionare la sua pellicola; avremmo voluto poter parlare della sua messa in scena sontuosa, di come le fiammelle delle candele formino uno splendido formicolare di grana, oppure di come la costruzione narrativa di A gentle creature sia pressoché inattaccabile e cinematograficamente magnifica, viaggio kafkiano che tende all’introspezione di un Dostoevskij partendo dagli autobus affollati della provincia per lanciarsi in un viaggio della (non) speranza, che poi nient’altro è che la spirale distruttiva e incubale che la malcapitata protagonista dovrà percorrere, stretta nella tenaglia fra il potere politico e quello mafioso, alla ricerca di un marito (sparito?) in carcere – dall’ufficio postale di un pacco che ritorna al gioco della bottiglia di uomini “tutti maiali”, dai diritti negati alle perquisizioni corporali, dal cellulare della polizia alle fiabesche carrozze che emergono da un’aura di luce, dalla fiducia puntualmente tradita alle scariche elettriche che avvolgono gli alberi durante la notte. Avremmo voluto poterci concentrare sulla potenza visiva e immaginifica di A gentle creature, capace di partire come l’osservazione della quotidianità per poi procedere verso una progressiva dimensione incubale, surreale, lynchana negli arredamenti e felliniana nelle tavolate di mostri. Avremmo voluto, ma non possiamo. Perché quello del nuovo film (nuovo cinema?) di Loznitsa non è un problema di “come”, ma è un problema di “cosa”, del messaggio che A gentle creature porta avanti e fa passare.
In principio era un dubbio, di natura etica, che già ci tormentava verso il finale del pur buono Austerlitz, con quell’entomologico indugiare con far giudicante su chi, di fronte alle cancellate dei campi di sterminio, sorride nei selfie. Ma se quello era, appunto, solo un dubbio, solo un piccolo germe che iniziava a sedimentare al termine della visione, qui il problema è ben diverso e ben più radicato, e non è solo un problema di natura etica (la macchina da presa, anzi, è spesso molto vicina alla sua protagonista, sostituendo quella distanza del Loznitsa documentarista con una viva partecipazione nel cinema di finzione), ma prettamente politica, in un film profondamente ideologico e chiaro, diretto e lampante, nel suo attacco frontale a un Comunismo assunto a origine d’ogni male. Un attacco non indirizzato al regime comunista, che in quanto regime, durante l’imbarbarimento staliniano, non è certo esente da colpe di assoluta gravità, ma proprio al Comunismo, all’ideologia, a Lenin e a Marx, all’Armata Rossa e alla Falce e Martello, quasi come se prima della Rivoluzione d’Ottobre ci fosse stata la democrazia e non lo zar, quasi come se prima della Rivoluzione d’Ottobre ci fossero la felicità e la bambagia, e non l’assolutismo e lo sfruttamento.
È un problema che viene da molto lontano, quello di A gentle creature, è un problema che affonda le radici nelle derive staliniste, che si nutre del dilemma di identità che vive quotidianamente ogni cittadino nato sotto la Bandiera Sovietica e poi, un giorno, diventato ucraino. E soprattutto è un problema (ri)diventato pressante nel 2014, l’anno-spartiacque, il momento chiave in cui è stato necessario, non solo in Ucraina e in Russia, ma più o meno in tutte le Repubbliche ex-Sovietiche, prendere una posizione ben precisa. Il 2014 è stato l’anno della violenza, della cacciata del governo di Kiev, e poi della guerra: da una parte la sostanziale aggressione alla Crimea, penisola ucraina, da parte della Russia di Putin, legittimata dagli organismi internazionali e conclusasi con l’annessione dei territori alla Federazione Russa; dall’altra il Donbass che si stacca e si proclama indipendente, rispolverando vecchie immagini di Stalin e chiudendo (para)militarmente i confini. In mezzo ai due fuochi, l’Euromaidan, movimento sostanzialmente filonazista, e le indecisioni di ogni ucraino, fra chi abbraccia Putin e chi lo considera un colonizzatore, fra chi si professa filoeuropeista e chi si chiude nell’ultranazionalismo fanatico, fra chi parla russo e chi parla ucraino, lingue diverse per opinioni differenti. La guerra non solo civile ha tolto ai cittadini ucraini l’appartenenza, facendoli ripiombare nei ricordi (o nell’esaltazione) di una dittatura distruttiva e nella depressione di chi non vede più speranze all’orizzonte, mentre le politiche espansive, oppressive, censorie e destrorse di Putin non possono, dall’altra parte dei confini, che costringere anche chi vive sotto il tricolore russo a prendere una posizione, a favore o contro.
In questa situazione, era inevitabile che anche il cinema reagisse, si facesse portavoce di questo momento storico, di queste indecisioni e di queste atroci divisioni fra chi pedissequamente canta la gloria della Russia secondo i dettami governativi e chi invece vuole smascherarne le storture e le iniquità. Viene in mente, guardando neanche tanto indietro, Vitalij Manskij con il suo ultimo Close relations, documentario straziato, al contempo storico e umanissimo, fatto di continui viaggi per l’Ucraina proprio nei mesi più “caldi” del 2014-2015 per tentare disperatamente di tenere unita la sua famiglia. Viene in mente l’Alexandr Sokurov di Francofonia, pronto a interrogarsi sull’Europa, sul nazismo, sull’arte che sta per andare persa su una nave/Russia lanciata alla deriva in mezzo a una tempesta. Come purtroppo viene in mente, dall’altra parte, l’Andrei Konchalovsky di Paradise, pronto invece a “vendersi” al governo, a mettere a disposizione la sua arte per oscuri fini politici, portando alla scorsa Venezia un sostanziale film di regime nel quale solo la russa raggiungerà la salvezza e la santificazione, mentre francesi e tedeschi periranno e saranno dannati per il semplice motivo che non fanno parte della Grande Madre.
In questo valzer di sguardi e di opinioni necessariamente radicali, di risposte di diversa natura a una situazione frustrante ai limiti dell’insostenibile, c’è poi Cannes 2017, nella quale sono stati presentati, fra il Concorso e la Quinzaine des Réalisateurs, ben tre film che, scegliendo vie e sguardi totalmente differenti, esprimono questa necessità autoriale di interrogarsi, di prendere posizione, di mettere in scena quello che è accaduto e ancora sta accadendo, fra le risposte di testa e quelle di pancia, fra la capacità di discernere e un sostanzialmente grillino “fanculo tutti” che nient’altro fa che distruggere, tirando nel suo vortice senza distinzioni tutto ciò che è stato. Loveless di Andrey Zvyagintsev porta sullo schermo una Russia di anaffettività, apparenze ed egoismi, rimanendo strettamente legato all’oggi, alla quotidianità, e configurandosi come una condivisibilissima stilettata metaforica contro l’attuale governo algido e imperialista di Vladimir Putin. Frost del lituano Sharunas Bartas, invece, nel procedere del furgone di aiuti umanitari verso il cuore dei combattimenti in Ucraina mette in scena tutto l’orrore e tutto lo strazio della guerra scegliendo una matrice emotiva e neorealista, sguardo lacrimato che alle risposte, fra tradimenti e baci (non più) appassionati, preferisce ancora le domande. E poi c’è, appunto, questo nuovo lavoro di Loznitsa, che alla crisi ucraina, da ucraino, risponde di sola pancia e frustrazione, con un istinto a metà strada fra il leone ferito e il lottatore sconfitto. Imboccando, fra le tante possibili strade, il sentiero della reazione.
Già, la reazione. Perché è un film profondamente reazionario, A gentle creature. Lo è nella chiarezza dei suoi messaggi anticomunisti, lo è nelle lampanti metafore dei busti di Lenin che più volte incombono come uno spettro nel procedere verso l’incubo, lo è in ogni disgustoso personaggio, a parte l’unica pettoruta aiutante, che alla protagonista capiti di incontrare e inevitabilmente subire. Lo è nel momento in cui anche una semplice indicazione stradale può fornire l’assist per una battuta contro Marx al quale la strada in questione è dedicata, lo è quando guardoni e assurdi potenti indossano necessariamente la divisa dell’Armata Rossa e finiscono inevitabilmente per delirare di Grande Russia, e lo è nella fastidiosa gratuità dello stupro finale nel camion, al quale non basta di certo la fotografia, per quanto sia da applausi nel fare emergere le figure dal nero nei lampi di luce, per salvarsi dalla natura violenta e avvilente del suo messaggio retrivo e incapace di fare le necessarie distinzioni storiche. Specialmente nel 2017, anno di celebrazioni del centenario della Rivoluzione d’Ottobre, A gentle creature è un film oltraggioso, che non tiene conto di chi ha lottato per rendere realtà un’utopia, che non tiene conto delle abissali differenze fra Lenin e Stalin, che non tiene conto del fatto che, senza la Rivoluzione d’Ottobre “origine d’ogni male”, un’arte come il cinema, nella Russia zarista, probabilmente non sarebbe mai arrivata, e che lo stesso Loznitsa, in questo momento, anziché poter fare film sarebbe probabilmente impiegato in una miniera di carbone, a lavorare 10 ore al giorno per una manciata di rubli o più probabilmente nemmeno quelli.
Quello di A gentle creature è un insormontabile problema politico e ideologico, che trasforma un film cinematograficamente straordinario, appena si guarda leggermente al di sotto della luccicante superficie, in un vuoto pamphlet anticomunista, pieno di inesattezze e di retorica, pieno di odio e di didascalismi distruttivi anziché propositivi. E poco importano, a questo punto, la qualità delle immagini, la genialità delle inquadrature e dei movimenti di macchina, la costruzione del congegno narrativo e metaforico, o la fotografia di una bellezza stordente, perché queste capacità sono messe a disposizione di un fine sbagliato, castrante, limitato: una risposta dettata dalla frustrazione, dal vivere la dissoluzione di ogni certezza politica e sociale, da un istinto che prevalica la ragione mentre la patria si sfalda. Reazione comprensibile, forse, in un Paese spartito fra fuochi distruttivi e iconografie, ma non per questo difendibile nella sua visione politica retriva, nei suoi messaggi reazionari, nella sua chiusura revisionista. Perché A gentle creature, nella sua pur magnifica forma cinematografica, non è (più) cinema, ma solo inaccettabile propaganda. E, vista la natura del problema di A gentle creature, il timore che non sia un passo falso ma una radicale, e orribile, svolta di pensiero di Loznitsa, serpeggia come un dolore ancestrale.
Marco Romagna