A FAMILY TOUR (2018), di Liang Ying
C’è un coraggio quasi folle, alla base di un film come A family tour. C’è una ben precisa volontà di resistere affrontando di petto l’inaffrontabile, gridando a piena voce ciò che non si può nemmeno sussurrare, sfidando apertamente il potere con l’accensione dei riflettori su quei soprusi che la sua censura e il suo controllo dell’informazione, di internet e del cinema provano a insabbiare con ogni mezzo. Come prima, più di prima, nonostante tutto, consapevoli delle proprie decisioni e della ben precisa funzione e aspirazione di un artista politico e ribelle, insofferente di fronte alle privazioni della libertà. Parte da lontano l’opera quinta del giovane cineasta (non più riconosciuto come) cinese Liang Ying, presentata in concorso al 71mo Locarno Festival e destinata come la precedente a non uscire mai in patria. Parte dalla faccia più oscura di quella matassa non sempre coerente e quasi inestricabile che è la Cina contemporanea del “sogno” di Xi Jinping, dai suoi cambiamenti e dalle sue (s)torture, dalle sue derive dittatoriali e dalle sue vendette trasversali, dalle sue sempre più strette politiche censorie nei confronti tanto dell’arte quanto dei privati cittadini a cui è impossibile persino accedere a Google e dalle sue epurazioni verso chi prova ad alzare la voce e a denunciare il disastro politico e umano che quotidianamente si consuma sotto gli occhi ma nel silenzio di tutti. Anzi, in realtà l’inizio delle storie vere che, concatenate come una matrioska, portano alla storia (non troppo) messa in scena in A family tour è da ricercarsi ancor prima dell’insediamento di Xi e della sua sostanziale nuova (contro)rivoluzione culturale, in cui il più feroce capitalismo di Stato si è camuffato da Comunismo per trasformare il Paese in una superpotenza mondiale, di fatto occidentale, sulle spalle dei cittadini. Bisogna tornare all’ottobre del 2007, quando in sella alla Cina c’era ancora Hu Jintao, e a Shangai l’allora (e per sempre) ventottenne disoccupato Yang Jia veniva fermato dalla polizia reo semplicemente di trovarsi alla guida di una bici senza targa. Trascinato in caserma, il giovane venne pestato e torturato per tutta la notte, e nei seguenti mesi, dopo il rilascio, furono continui e variegati i soprusi perpetrati dagli agenti nei suoi confronti. Fino al primo luglio 2008, data in cui Yang Jia, ormai esasperato, si presentò di nuovo in quella stessa stazione di polizia, ma questa volta armato di coltello e oggetti contundenti di fortuna, riuscendo a uccidere sei uomini in divisa prima di essere arrestato, processato, condannato a morte e giustiziato in fretta e furia nel giro di poco più di tre mesi. E mentre giudici e media glissavano sulla lunga serie di sevizie che il giovane assassino aveva dovuto subire prima del suo gesto estremo, sua madre, perfettamente sana, era stata internata dalle autorità cinesi in un istituto di salute mentale fino a dopo l’esecuzione in modo che non potesse testimoniare a favore del figlio. Di questo parlava, focalizzandosi non tanto sul processo farsa e sulle intime cause del gesto omicida come già fatto (come di consueto male) dal collega Ai Weiwei in One Recluse quanto sull’impossibile ricerca di giustizia di una madre a cui è stato strappato via il figlio, il precedente e scomodo film di Liang Ying When night falls, a causa del quale il regista, prima ancora di avere il tempo di poterlo presentare proprio qui a Locarno vincendo nel 2012 il premio per la miglior regia, era già stato accusato di tradimento e cospirazione contro lo Stato, esiliato dalle autorità cinesi e costretto a vivere a Hong Kong. E proprio dall’ostracismo perpetrato dal potere oscuro e corrotto della (non) Repubblica Popolare nei confronti di When night falls e del suo autore, seguendo lo stesso principio teorico secondo il quale il modo più lucido ed efficace per mostrare la realtà è rimetterla in scena con le astrazioni permesse dalla finzione, prende invece le mosse questo A family tour, meta-autobiografico e meta-cinematografico tratto d’unione che concilia in una narrazione di pochi giorni l’impegno politico e la sincerità degli affetti familiari, perché anche nell’asfissia del regime l’amore vince sempre, e così l’appartenenza, il bisogno di libertà, il senso di giustizia, la missione dell’uomo prima ancora di quella del regista.
Innestando i propri elementi autobiografici su un alter ego femminile e cambiando il titolo – ma non l’argomento né le discussioni sul senso e la forma – del suo lavoro precedente nel fittizio The mother of one recluse, Liang Ying dischiude l’occhio della sua macchina da presa sulla censura cinese e sull’epurazione subita, sui tentativi del governo di boicottare le presentazioni e le uscite di When night falls non solo in Cina ma in tutto il mondo compresi i Festival, sulle conseguenze (anche se forse sarebbe meglio chiamarle con il loro nome: rappresaglie) subite dalla famiglia del regista in seguito al suo asilo hongkonghese, sul muro di assordante silenzio che si cerca di squarciare con un attacco così esplicito e frontale, sulle richieste cinesi di estradizione rifiutate dalle autorità di Hong Kong e sulle misteriose sparizioni di chi avrebbe voluto e dovuto finanziare i suoi film successivi. Realtà e finzione si rincorrono, in A family tour, si abbracciano, si fondono, si rafforzano a vicenda, entrando a gamba tesa su una delle principali e più insabbiate tragedie sociali contemporanee e ragionando sull’identità personale e nazionale delle sostanziali tre diverse forme di Cina, sul Paese natale e sul Paese adottivo, sul ruolo di Taiwan come sorta di unica zona franca nella quale è ancora possibile, seppur con difficoltà da superare per l’ottenimento dei visti e precauzioni da prendere per sembrare turisti, ricongiungere una famiglia distrutta dalle imposizioni e dalle limitazioni imposte dall’autorità, e non certo in ultimo sul cinema e sulla sua funzione politica, culturale, storica e sociale di linguaggio (e metalinguaggio) costantemente in lotta per la libertà artistica. Anche a costo, pur di portarne avanti le istanze, di perdere quella personale, e di continuare dopo averla persa a gridare ancora più forte di prima. Perché è un’aperta sfida alle istituzioni, A family tour, è una lettera in immagini amara quanto orgogliosa per gli altri Paesi e per i posteri, è il rigurgito di libertà di chi già e per molto meno è stato costretto all’esilio, condannato a non poter mai più tornare a “casa”. Proprio come la protagonista Yang Shu, regista in viaggio fra un Festival e l’altro ma mai (più) nella sua città natale, moglie di un direttore di Festival e madre di un figlio hongkonghese che non ha mai avuto modo di conoscere la nonna rimasta in Cina. Una nonna che ora, attempata e malata, è in attesa di una rischiosa operazione, ma non può perdere l’occasione di aggirare i divieti per poter vivere qualche giorno di serena (e impossibile) normalità. L’invito fatto a Shu da parte di un Festival di Taiwan per omaggiare al suo cinema vietato in patria dal governo sarà il loro ricongiungimento familiare dopo oltre cinque anni di esilio, sarà l’occasione perché la nonna possa finalmente abbracciare il genero e il nipote, e possa finalmente rivedere e sfiorare quella figlia epurata e mai più guardata se non attraverso le schermate di Skype. Negli ultimi anni, in compenso, l’ormai anziana donna ha visto una casa espropriata e distrutta senza nemmeno l’ombra di un risarcimento per costruire un’autostrada, ha visto i propri diritti falcidiati per “colpa” di una figlia antigovernativa, ha visto la propria famiglia sfilacciata e ricercata con un marito preso, accusato ingiustamente di tradimento e ucciso dalla polizia per punire a distanza Shu e il suo film “sovversivo”, mentre la regista esule a Hong Kong nient’altro poteva provare se non ingiusti sensi di colpa sulla consapevolezza di essere dalla parte della ragione, e magari disabituarsi e provare a stupirsi, da acquisita hongkonghese (come se Hong Kong non avesse servizi segreti capillari e un numero spropositato di condanne a morte ed esecuzioni, ma questo è un altro discorso che con questo film poco c’entra), di ciò che accade in Cina. Ma serve a poco avere ragione, nella Cina di oggi. Anzi, in assenza di libertà avere ragione è una colpa, è una condanna, è una guerra aperta fra il potere statale e il “traditore”. E di fronte a censure, divieti, soprusi e una famiglia distrutta, esiliata, censurata, proibita, ricercata e ammazzata in attesa di divellerne anche le tombe non basta di certo la facciata di democrazia, non basta impaurire e punire l’opinione e l’opera di ingegno per mantenere il silenzio, non basta la censura, fortunatamente impotente o quasi su quelli che sono gli autori internazionali ormai troppo conclamati per essere toccati – si veda il caso di Jia Zhang-ke, presidente della Giuria chiamato allo scomodo compito di giudicare proprio questo film, acclamato anche in patria con tanto di piccolo ruolo nelle macchine del governo – quanto spietata e infallibile con chi invece questa “importanza” e questa attenzione internazionale (e di botteghino) puntata addosso non la hanno, come Liang Ying ma anche come, facendo un esempio di poco meno perseguitato ma ancor più illustre fra i cinefili, Wang Bing, che in Cina può ancora entrare ma di certo non è ben visto. Perché il cinema, e in generale l’arte, forse non può davvero «sovvertire lo Stato», ma senza dubbio può dire e mostrare verità anche scomode, può raccontare e prendere posizione in barba a chi vorrebbe controllarlo e metterlo a tacere, può suggerire sensi e opinioni, può, per lo meno in potenza, (ri)svegliare occhi e coscienze.
A family tour, nel suo alternarsi dei giorni e delle attività, nel suo delineare la sopravvivenza dell’esiliato e nel suo incarnare la continuazione di una lotta, si fa forte di uno stile rigorosissimo, fatto di movimenti di macchina pressoché assenti e di ingressi discreti in ogni sequenza, con un totale che diventa ogni volta un progressivo avvicinamento ai protagonisti e al loro turbinio di emozioni con campi, controcampi e dettagli in inquadrature fisse. Basterebbe la sequenza in cui la nonna si sente male, messa in scena in istanti netti, che dalla commozione di un rapporto fra nonna e nipote che diventa sempre più tenero passa direttamente all’arrivo dell’ambulanza, e poi di nuovo in ospedale, con l’attesa di Shu e gli ingiusti rimproveri sull’incoscienza di aver fatto viaggiare – ma la protagonista non ne era consapevole – una donna anziana in condizioni di salute così precarie. Shu, sempre pronta all’attivismo delle immagini sia con la riscoperta del suo precedente lavoro, apertamente schierato dalla parte della madre di una vittima diventata per un attimo carnefice e immediatamente tornata vittima, sia con la preparazione di un nuovo film, questa volta incentrato sul movimento di protesta hongkonghese degli ombrelli, incarna un’intera generazione di cineasti idealisti, militanti, insofferenti di fronte ai divieti e alle limitazioni, censurati ma comunque mossi da un senso di viva necessità, altruisti fino all’egoismo del paladino e del martire, pronti a essere perseguitati pur di esercitare i propri diritti di esseri umani pensanti che si ribellano a un regime. Certo, nel film non manca qualche eccesso di didascalismo o di seriosità, così come non manca qualche ripetizione degli stessi concetti fra registrazioni che ritornano troppe volte e ricordi troppo simili che fanno capolino a innervare con il passato la rabbia/sofferenza/lotta presente del(la) regista, ma nessun piccolo limite riesce a scalfirne in alcun modo il senso politico, la funzione culturale, l’interesse meta-autobiografico e linguistico, né tanto meno il cuore. Perché A family tour, nel suo placido scorrere dei pochi giorni di vacanza/lavoro che ricostruiscono l’amore fra i parenti e le generazioni, è anche una riflessione sulla (grande) famiglia (sino-taiwanese-hongkonghese), fatta di rapporti che nascono e si sviluppano, fatta di emozioni, fatta di sincero affetto, fatta di coesione e di responsabilità, fatta dei giochi nel parcheggio fra quei pullman che la nonna deve prendere fingendo di partecipare alle visite turistiche guidate e di non conoscere, per lo meno nei primi giorni, la propria famiglia proibita. Ma quale che sia il nome e il ruolo scritto sul visto il sentimento esplode, perché l’amore cinese è lo stesso amore di cui è capace Hong Kong, è quello di un marito che di fronte alle lacrime della moglie si offre – protetto dalla propria cittadinanza – di accompagnare personalmente la suocera verso le sue speranze e la sua degenza ospedaliera, è quello che emerge al di là del sangue, ed è quello di un figlioletto che accompagna Shu alla proiezione del suo film. Quello stesso film, su una madre, che verrà contemporaneamente visto in aereo da una madre in viaggio verso il proprio destino, fino a quando non si addormenterà in volo teneramente coccolata da un genero che solo pochi giorni prima sapeva appena di avere.
Marco Romagna