L’orchestra sinfonica dei Quartieri Spagnoli di Napoli comincia una modesta resa del Bolero di Ravel, che già abbiamo imparato ad amare al cinema attraverso Bruno Bozzetto, Sion Sono e Kim Jee-woon, mentre scorre una galleria di immagini semplici, soprattutto fisse ma anche mobili, una serie di quadretti di napoletanità: così comincia ‘A faccia, piombando subito in una delle zone più controverse di Napoli, a partire da un passato di criminalità più o meno organizzata e di diffusa prostituzione. I Quartieri Spagnoli necessitano una rinascita, necessitano un’umanizzazione, una rivisitazione. Il regista Fabrizio Livigni, già assistente a Davide Manuli per La leggenda di Kaspar Hauser (2012), usa l’audio più per dare un’impressione che per focalizzarsi su di un qualcosa di specifico, dando un’idea di comunità e chiusura. Ma rimane un’enorme fascino nei confronti di questo mondo, così umano e terreno, eppure così predisposto a essere filmato. Il protagonista è Salvatore, ragazzo dei quartieri, falegname e operaio, diventato da poco consigliere municipale, il cui scopo principale è utilizzare le proprie mani per ridare dignità ai Quartieri. Ma non è l’unico protagonista: bambini che giocano a karate (guardando in macchina e urlando), ristoratori, negozi di animali con cani che abbaiano e carlini e anatre che camminano insieme liberamente per strada, scritte Song ‘e Napule, parrucchiere che si fanno autoscatti di gruppo con la cinepresa accesa, pantalonai, giornalisti, insegnanti e studenti al conservatorio, pescivendoli, fruttivendoli, meccanici, scultori.
Livigni mischia il dettaglio all’immagine più in grande, riuscendo a creare una riflessione che va dalla processione religiosa alla rappresentazione dell’intimo, come provando (e presumibilmente riuscendo) a comporre un pensiero definito nei confronti dell’urbano – non nel senso ormai semanticamente abusato del “degrado”, bensì nel senso semplicemente della rappresentazione della strada e della sua vita, con un’oggettività implacabile che non dà mai l’idea di essere a scopo cartolina. La macchina da presa può ri-umanizzare i Quartieri Spagnoli, attraverso la lotta di Salvatore, attraverso questo geografico flusso di coscienza collettiva attraverso il lavoro, come punto focale e motore della vita – e in questo senso forse può ricordare il turbine di materia di D’Anolfi e Parenti con Spira Mirabilis (2016). ‘A faccia non si pone come un’operazione intellettuale né come un reportage, non ha né la cerebralità della prima né il didascalismo programmatico della seconda, bensì è un ritratto per facilitare la comprensione di un luogo, per ispezionarne i limiti e vederne la faccia. E la faccia del quartiere, che è “’a faccia” del titolo, è la faccia di Diego Armando Maradona, forse il calciatore più cinematografico di tutti tra Kusturica e Sorrentino, manifesto (anche) napoletano di vita, di grandezza nella cultura popolare. Il restauro del murale di Maradona, distrutto, rovinato dal tempo e usato come bersaglio dai kalashnikov dei camorristi, viene curato da Salvatore stesso con come scopo l’idea di una segnaletica per orientare i turisti, il che è anch’essa una forma di cultura, dando una vera e propria idea di messaggio d’amore per Napoli. In ciò si può vedere il cuore (e, forse, anche il provincialismo) di un’opera così apparentemente fredda e seriosa, negata però da immagini poetiche (anche brevi) come il violinista sul tetto.
Il cinema recente, passando prima per Garrone e poi per Per amor vostro (2015) di Gaudino, ha spesso utilizzato la napoletanità per raccontare l’italianità e i valori del cinema, ma il ciclo del falegname Salvatore attraverso lo sguardo di Livigni, con le porte che prima si aprono e poi si chiudono, il bambino che lo assiste e le riprese a spalla in motorino, ha più la forma di una city symphony in crescendo, creando icone per la neo-napoletanità, sospensioni temporali per una città magica, che per lo stesso regista è facilmente fotografabile, usando distanza e rispetto, facendo vivere la città attraverso la propria dolce spontaneità. Il film doveva essere concentrato solo su Salvatore, ma attraverso un “crowdfunding velocissimo” (con gli amici tifosi del regista) è apparso, umanizzato, il resto della vita dei Quartieri Spagnoli. E quindi giunge la rinascita, e il documentario, qui, a Bellaria, di nuovo, vive.
Nicola Settis