A DARK DARK MAN (2019), di Adilkhan Yerzhanov

È ancora quell’estendersi bruciato delle sterminate steppe kazake, la location perfetta per il cinema lirico e annichilente di Adilkhan Yerzhanov. Sono ancora quei campi di grano secco e giallastro che fluttua e che in qualche modo parrebbe tentare invano di nascondere, quasi volesse proteggerli, gli esseri umani dalle loro stesse derive. Sono ancora quelle strade polverose, sono ancora quelle campagne nerborute e materiche, sono ancora quegli sprazzi di ironia e di profondissima umanità che si fanno largo nella più agghiacciante e sofferta desolazione. Ma questa volta non è più l’indifferenza di Camus nella continua dialettica filosofico-esistenziale fra amore e morte di The gentle indifference of the world, il punto. È un qualcosa di più vicino, terreno, politicamente urgente nelle quotidiane ingiustizie sociali di un Kazakistan fondato sulla mazzetta, sulla violenza, sulla tortura, sulla minaccia e sull’omicidio, ma non per questo, a partire dalla sospensione (a)temporale in cui le vecchie auto sono già diventate i catorci arrugginiti di oggi ma i protagonisti non hanno (ancora/più) i cellulari, meno simbolico. Nel cielo sopra A dark, dark man non c’è più il sole che nel folgorante lavoro precedente riusciva a squarciare come un barlume di speranza le nuvole grigiastre, l’estate è diventata autunno e non potrà che procedere a lunghe falcate verso la coltre di neve dell’inverno, mentre l’allegoria un tempo puramente astratta è qui virata nella concretezza altrettanto metaforica del corpo senza vita di un bambino ricoperto da un lenzuolo insanguinato. È il punto di innesco di un thriller atipico, profondamente debitore a Takeshi Kitano tanto nei campi di grano già di Boiling point quanto nel sangue redentore degli Outrage, tanto nelle fiammate (tragi)comiche che si fanno largo nella profonda cupezza quanto nella poetica di silenzi forse ancor più duri, assordanti e significativi delle parole. Un hard-boiled psicologico di gesti e di consapevoli scelte di messa in scena, visivamente abbacinante nell’inconfondibile autorialità del regista kazako applicata alla destrutturazione del genere, che lascia la detection poco più che sullo sfondo mentre si inoltra sui sentieri morali di due anime in pena, chi ancora crede nella giustizia e nella possibilità di cambiare il mondo ma dovrà necessariamente fare i conti con una realtà criminale, e chi invece magari ancora non lo sa, ma ha solo bisogno di sentire il calore della sua umanità sopita ma mai realmente esaurita che riemerge da troppi anni di adattamento al sistema corrotto, ha solo bisogno di ritrovare se stesso, ha solo bisogno di ricominciare ad agire secondo coscienza e non secondo gli ordini del Potere, se necessario fino al sacrificio. In una società ambigua e malata che sfuma continuamente i contorni fra poliziotto, gangster, politico e scagnozzo in passamontagna, e che cercherà come al solito di incastrare un capro espiatorio indifeso con la confessione estorta del quale sentirsi tutti innocenti, a volte serve guardarsi allo specchio per rendersi conto di stare realmente uccidendo un uomo a sangue freddo. Serve vedersi con occhi esterni, ancora puliti dalla polvere e dalle banconote che cambiano tasca, per rendersi realmente conto delle proprie colpe e per ricominciare ad agire secondo etica, umanità e giustizia. Serve incrociare due percorsi, quello verso la morale del poliziotto duro, picchiatore e assassino senza alcuna remora né senso di colpa, con quello verso la disillusione della giornalista che viene dalla città, e che di fronte all’evidenza di un serial killer non si accontenta delle «morti accidentali» e dei «suicidi» di tutti i (non) colpevoli dei singoli omicidi.

Si apre con la creazione di false prove da parte della polizia più corrotta, A dark, dark man, e si chiuderà con l’unica possibile redenzione e giustizia di un bagno di sangue. In mezzo, un detour di colpevoli e innocenti, in un’indagine che, forse per la prima volta ed esclusivamente per le pressioni del potere mediatico, deve forzatamente essere condotta secondo le regole e non uccidendo il primo indiziato disponibile come vorrebbe, con tanto di bustarelle per (quasi) tutte le pedine in gioco, il Potere. Gli sfavillanti quadri fissi di Yerzhanov e le sue lentissime carrellate quasi impercettibili scrutano e costantemente riequilibrano i paesaggi sterminati e deserti, desolanti come la quotidianità che li abita, mentre orizzonti, stanze e oggetti cambiano dimensioni e fisicità alle spalle dei personaggi che lentamente si relazionano, si evolvono, cambiano, muoiono, sopravvivono. In un Paese in cui la scientifica non giungerà mai sui luoghi dei delitti più inquinati e in cui la medicina legale ha bisogno di interi giorni per rimuovere un cadavere, è evidente quasi da subito, fra le mazzette elargite dal gangster/braccio destro alla polizia per eliminare l’innocente appena incastrato e il silenzio comprato dell’unico possibile testimone, che nello stupro e omicidio del ragazzino abbia con ogni probabilità più che un ruolo il politico a capo dei misteriosi miliziani incappucciati e i sostanza dell’intero villaggio. Ma non è questo che interessa a Yerzhanov, come gli interessa tutto sommato relativamente denunciare le storture del sistema. Alla sua opera settima A dark, dark man, presentata a Rotterdam 2020 dopo la prima di San Sebastian, importano molto più gli esseri umani, le coscienze, le anime, le interazioni. Importano Ariana, Bezkat, il ritardato Pekuar da comprare con una barretta di cioccolato, importano i bambini orfani con cui sopravvive, importano i suoi disegni di impossibile tenerezza familiare su un tovagliolo, importano i suoi scherzi innocenti con il clacson o a spingere l’auto in panne dalla parte sbagliata. Importa il ritorno del senso di giustizia, importa il montare inaspettato della tenerezza, importa l’incapacità di sparare all’ennesimo innocente e l’essere pronti ad affrontarne le conseguenze. Importa, dopo ripetuti casi chiusi con il “suicidio” di comodo del sospettato, il percorso da antieroe a martire, importa il percorso da pedina a persona di nuovo decente, importano i sensi di colpa e il riscatto, importa il passaggio dalla pura violenza della legge del più forte all’umanità. Passando da botte date e forse soprattutto prese, da un fastidio che diventa ragione, da inganni e pagamenti sottobanco, da luoghi che si disvelano nei movimenti della macchina da presa e da sublimi istanti di sospensione narrativa e idillio, con l’espandersi elastico delle linee di basso e moog della strepitosa colonna sonora elettronica composta da Galymzhan Moldanazar guardando abbastanza evidentemente, altro cortocircuito di anacronismi e poetica, agli anni Settanta di Giorgio Moroder. E soprattutto passando da un ben preciso lavoro sul genere e sul linguaggio, passando dalla dilatazione dei tempi, passando dallo stile di ripresa e dal montaggio minimale, passando da quei viraggi comici verso l’assurdo che, maliziosamente lanciati nell’assurdo tragico dell’ingiustizia complottante messa in scena, costituiscono in un certo modo la punteggiatura della narrazione. C’è l’arrivo sul luogo del delitto del poliziotto spaccone Bekzat con cappello da cowboy e musica alta mentre i suoi superiori mimano bracciate di nuoto, ci sono i noodles che – affamato dopo l’ennesima canna – mangia avidamente mentre esamina il cadavere, ci sono le improbabili partite a palla fra la giornalista Ariana e i bambini, e c’è la tenerezza ingenua e innocente di chi mangia merendine probabilmente senza nemmeno rendersi conto di essersi trovato almeno per un momento di fronte al plotone di esecuzione. Nessuno potrà arrivare del tutto senza lividi al termine del percorso, ma a volte basta e avanza l’innocenza di chi corre di nuovo libero e felice nella neve per non dare peso al sangue, ai cerotti, forse nemmeno alla morte. Rimane raggelante quella canzoncina per bambini, con l’A dark, dark man ridiventato un uomo buono. Rimane la troupe televisiva che arriva dove ormai il massacro finale è già finito, rimane quella prova d’amore impossibile ancora insanguinata fra le dita. Rimane la consapevolezza di aver fatto, per una volta tanto, il giusto. Anche se dovesse essere l’ultima volta.

Marco Romagna