«La fotografia è verità, e il cinema è verità ventiquattro volte al secondo»
Jean-Luc Godard
Mancava un solo ultimo tassello a Jonas Carpignano per completare la sua straordinaria mappatura umana in tre atti dei microcosmi che si intrecciano a Gioia Tauro. Una trilogia di pura finzione eppure profondamente documentale nel vivere visceralmente la terra che mette in scena, figlia di un ben preciso, personale e umanissimo metodo di lavoro che si snoda lungo una preparazione di interi anni passati fianco a fianco con le famiglie dei non-attori chiamati, anche nel ruolo, a essere sempre profondamente se stessi, abitanti di una terra dalle peculiari sfaccettature che solo chi ci vive giorno dopo giorno può realmente conoscere, comprendere e restituire. In principio fu l’approdo nel reggino del regista nativo di New York insieme ai migranti africani di Mediterranea, poi la sua decisione di fermarcisi nello scorrere dei giorni e alle problematiche nella comunità rom stanziale di A Ciambra, e adesso è la necessità ma anche l’impossibilità di A Chiara di andare davvero via dalla Calabria e dalla costante ricerca del suo senso più profondo. Tutto il contrario di quelle che potrebbero essere una fredda inchiesta o peggio ancora un pamphlet retorico sulla ghettizzazione e sulle rivolte dei braccianti di colore, sulla comunità rom o sulle famiglie che per necessità e in gran segreto anche interno si sono affiliate come manovalanza alla ‘ndrangheta, ma vere e proprie indagini sentimentali che non vogliono limitarsi a osservare ma realmente capire, che non vogliono analizzare un fatto o una sfaccettatura ma portare sullo schermo cosa voglia dire viverci dentro, che non vogliono in alcun modo giudicare nemmeno la delinquenza ma preferiscono comprenderne intimamente il contesto, le ragioni, lo stato di necessità, l’inevitabilità. Calando nell’alveo del più incontaminato vero, secondo la dichiarazione programmatica con cui Francesco Rosi aveva aperto Le mani sulla città, quei paradigmatici avvenimenti fittizi che in una crescita autoriale evidente, costante e coerentissima sono progressivamente in proporzione sempre maggiori (per la prima volta cambia il nome di battesimo della protagonista dalla Swamy della vita alla Chiara dello schermo, per esempio, ma a cambiare ancor di più è il fatto che la sua famiglia nella realtà non sia in alcun modo mafiosa) eppure non perdono un briciolo del loro nitore documentaristico, della loro esattezza, della loro profondità. Fra la scuola frequentata o saltata e il razzismo serpeggiante fra le differenti comunità, fra i petardi e i cellulari che è meglio distruggere, fra gli abbracci familiari e il sottile confine tra mafia e sopravvivenza, fra i trasporti dei carichi e il sangue freddo ai posti di blocco quando nel portabagagli ci sono droga, soldi e latitante: vedere e capire per poter scegliere.
È il vero della natura e dell’evolversi dei rapporti umani, quello che il cinema sempre più miracoloso di Jonas Carpignano porta intatto sullo schermo, quello delle medesime amicizie e parentele che realmente legano gli attori/personaggi nella vita come nella finzione, quello della loro conoscenza radicata e viscerale della mentalità locale su cui interpretare in buona parte la propria esistenza, come se il ruolo che incarnano con assoluta credibilità e vette di intensità che sarebbero straordinarie anche per un professionista consumato (e non è certo un caso che gli unici a recitare meccanicamente siano il giudice minorile e l’assistente sociale, ovvero le pedine spersonalizzate della burocrazia statale, quella disumanità che anziché comprendere nient’altro sa fare che ripetere le leggi a pappagallo senza mai esperire l’umano) nient’altro fosse che una versione romanzata di se stessi, con la stessa personalità, con gli stessi affetti, con gli stessi rit(m)i quotidiani, con lo stesso sguardo sui medesimi problemi. Emblemi di tre realtà differenti – prima i neri, poi i rom, e adesso non tanto la criminalità organizzata come unica offerta di lavoro, quanto il violento e improvviso squarciarsi del muro di omertà che svela a una giovane ragazza la vita nascosta di suo padre e il tentativo dello Stato di recidere quelle radici mafiose che affondano e la legano a doppio filo a quei luoghi e al loro contesto sociale prima che diventino ereditarie – che nel loro convivere si intrecciano delineando l’unicità problematica e stratificatissima di un luogo. Come parti di un tutto in cui Pio Amato, giovanissimo protagonista di A Ciambra dopo essere già apparso bambino in Mediterranea, non può che tornare brevemente e ancora cresciuto pure qui in A Chiara, di cui è protagonista la quindicenne Swamy Rotolo che a sua volta in A Ciambra già aveva esordito in un piccolo ruolo insieme alla sorella maggiore Giulia. Mentre l’ormai fido Koudous Seihon, nato in Burkina Faso ma ormai gioiese tanto quanto chi è nato e cresciuto nella piana calabrese, già protagonista di Mediterranea e come Pio per la terza volta (la quinta contando anche i due cortometraggi di Carpignano) paradigma del microcosmo del quale fa parte, non fa più il bracciante ma il netturbino e regolarmente continua, proprio come il regista che lo ha trasformato in attore, la sua vita italiana.
Basterebbe forse già il titolo di A Chiara, presentato a un’entusiasta Quinzaine des Réalisateurs a Cannes 2021, con il suo articolo dialettale che già comincia a porsi in aperto dialogo con il lavoro precedente di Carpignano, e che parallelamente costituisce già una dedica alla protagonista destinata nel corso della vera e propria detection messa in scena dall’autore italoamericano a scoprire, indagare, comprendere, crescere, scegliere, e pur sfruttando la sua occasione per una nuova vita a Urbino rendersi conto dell’inscindibilità dei legami e della profondità abissale delle radici. Sta tutto, se si vuole, nelle due opposte feste di compleanno, la prima a Gioia Tauro per festeggiare con tutta la famiglia il diciottesimo di Giulia, e la seconda a Urbino per quello di Chiara. Una festa proletaria ma profondamente viva nelle sue lacrime e nelle sue danze sfrenate (non tanto il Tuca Tuca della appena scomparsa Raffaella Carrà, quanto il lento ballato fra il padre e la figlia), e una festa ricca e piena di amici ma al confronto inevitabilmente ingessata nei suoi sorrisi di circostanza. Una festa in cui sentire la realtà dell’affetto familiare in un padre troppo ignorante ed emozionato per fare un discorso e un’altra in cui invece tutti si alzano in piedi per dire banalità, scambiandosi gli auguri e qualche regalo. Due feste in cui la macchina da presa rigorosamente in 35mm di Carpignano vaga sempre all’altezza della protagonista con i suoi diaframmi aperti a negare ogni tipo di profondità di campo, con quello stesso senso claustrofobico che può dare la scoperta che un padre premuroso e adorato del quale è sempre bello essere la cocca è in realtà un narcotrafficante in latitanza – un semplice operaio della ‘ndrangheta, perché «i boss non si sporcano le mani» – destinato oramai senza più alternative a finire i suoi giorni residui in un buco per terra in mezzo a un campo che a ben vedere, se non fosse per l’impianto a circuito chiuso, sarebbe già identico in tutto e per tutto a una cella. Chiara lo cerca e lo trova fra i silenzi di famiglia, saltando scuola e pedinando i parenti che sanno ma non dicono, fuggendo da un treno che la sta portando verso nord e volendo vedere con i propri occhi per vedere e capire l’inconfessabile. Per poi scegliere di andare, di accettare l’offerta di una realtà alternativa, ma con la consapevolezza che nel suo intimo non potrà mai che essere una beffarda apparenza, una menzogna con cui dissimularsi, forse addirittura un sogno. Non è certo un caso che Carpignano mostri per la prima volta Chiara in palestra, impegnata su quel tapis roulant che già intrinsecamente racchiude quell’idea di correre a vuoto, e che anche nel lasciarla ricominciare da capo in una famiglia marchigiana benestante e lontana dalla malavita e dalle disfunzionalità chiuderà sul fuori fuoco delle corsie altrettanto cieche e senza uscita di una pista di atletica, subito dopo l’agghiacciante e dolorosissima apparizione nello specchio della sua famiglia rimasta in Calabria fra la latitanza e la rassegnazione. Perché le illusioni si possono vivere e persino trasformare in scelta consapevole e nuova vita, ma resterà sempre una ferita aperta a scrutare nelle ragioni dell’anima e del sangue, resterà sempre un filo invisibile che lega inscindibilmente a quello che si è, e che è troppo profondo per non continuare a crepitare sotto la cenere.
Marco Romagna