A CASA TUTTI BENE (2018), di Gabriele Muccino
Alla fine, col passare degli anni, al tanto bistrattato Gabriele Muccino non si può volere che bene. La sua è la favola bella del regista italiano che corona il sogno di Hollywood, l’entusiasta che da sempre ha costeggiato modalità espressive all’americana iniettate nel cinema di casa nostra e poi ha avuto modo di viversele dal di dentro. Di natura ibrida e sfuggente, Muccino è spesso un autore che in Italia pensa hollywoodiano (e soprattutto scrive dialoghi talvolta trionfo di “doppiaggese”, con uso ricorrente di parole desunte dagli adattamenti italiani della retorica espressiva a stelle e strisce) e che in America si tramuta invece in “maniera della maniera”, sovente avvitato intorno a gigantesche atmosfere mélo che da aspirazione diventano limite. A poco a poco il cinema di Muccino sembra non avere più un suo territorio geo-antropologico, ma non è nemmeno abbastanza forte da tramutarsi in universale. Da sempre, specie nei film italiani, si culla in atmosfere generazionali dal breve respiro e senza grandi profondità, che dalle malinconie dei trentenni de L’ultimo bacio (2001) si sono spostate in avanti sulla linea della vita verso il racconto degli anni della maturità, per poi ritornare significativamente a patinate nostalgie postadolescenziali in L’estate addosso (2016), quasi a chiudere il cerchio con le prime scoperte dell’esistenza di Come te nessuno mai (1999). Quello di Muccino è un cinema spesso tributato di ampio successo di pubblico, che sempre più sembra però essere concepito senza un pubblico (forse l’esempio più lampante in tal senso è proprio L’estate addosso, film quasi precocemente senile nei suoi dolciastri aneliti di libertà puberale, nei quali è più facile che si riconosca qualche nostalgico quarantenne piuttosto che i gggiovani di oggi). Nulla, a conti fatti, sembra mai veramente autentico fino in fondo. Ma Muccino gira bene, squaderna spesso una scaltra conoscenza tecnica del mezzo, e specie nei film concepiti in Italia si è ormai affidato a un solo pugno di temi che conosce ormai a menadito: famiglia, ansie generazionali, un ricorrente vittimismo maschile e uno spiccato gusto per il romanticismo desunto a sua volta da modalità hollywoodiane. Purtroppo però, più che una linea coerentemente autoriale, il cinema di Gabriele Muccino sembra sempre più un tunnel dal quale non si riesce a venir fuori, una coazione a ripetere che da un lato mostra sempre maggiori raffinatezze sul piano narrativo, dall’altro apre cupi scenari di non-saper-cos’altro-dire.
A casa tutti bene nasce su una bella idea, un ampio consesso familiare che si ritrova in spazi stretti contro la propria volontà, con crescente ansia e claustrofobia, e inevitabile esplosione di isterismi. Nel mezzo (anzi, ai lati) qualcuno cerca di scartare, riscoprendo fremiti romantici perduti, sperando in modelli di vita diversi (i giovani), o lanciando uno sguardo acuminato dai margini riservati agli esclusi (il coté più convincente: la coppia Tognazzi-Michelini). Perché nelle ampie famiglie c’è sempre qualche pecora nera, confinata nel nero da una morale condivisa e implicitamente spietata. I “poveracci” in famiglia alla fine tornano comodi, fanno sentire migliori gli altri, che grazie agli sfigati possono tramutare in successi i propri fallimenti personali velando lo sguardo su se stessi. Su tali versanti A casa tutti bene si mostra ben intonato: «A me manco me guardano», afferma Giulia Michelini dopo aver tentato di partecipare a un brindisi collettivo. La famiglia è dolce e crudele, include ed esclude negli affetti secondo ineluttabili arbitrii. Non c’è mai posto per tutti. Aggiungi un posto a tavola, ma domani te ne vai. Un piccolo frammento, forse, risulta significativo su tale linea di ragionamento. Durante la decisiva esibizione di Riccardino/Gianmarco Tognazzi al pianoforte, Luana/Giulia Michelini guarda la famiglia che, dopo aver isolato i due tapini per tutto il tempo, di nuovo si riunisce intorno al musicista per cantare tutti insieme. E’ uno sguardo severo, disilluso, che per un attimo fa sperare che Muccino abbia scoperto le allusioni, l’economia di mezzi espressivi, le piccole suggestioni significative. E invece no, pochi minuti dopo tutto deve diventare chiarissimo, declamato, squadernato in modo univoco. Parte la lite più accesa e significativa, eccessiva e sbrindellata, ma anche l’unica possibile. Quello che si produce è il brano cinematografico più sbagliato e più giusto che possa esserci. Collocato in quel contesto espressivo si tramuta quasi in “necessario”. Perché Muccino resta sempre Muccino, lo riconosciamo, sa far litigare a meraviglia i suoi attori, e alle mezzetinte manco ci pensa.
E dunque? Dunque, grandi dubbi. A conti fatti A casa tutti bene è ben girato, addirittura raffinato nella sua capacità di gestire una ventina di personaggi in scena lasciando che la macchina da presa scivoli su di loro per perderli e poi ritrovarli, ricomporli in gruppetti inediti, riprendere le fila del racconto e rilanciarne di nuove. Ma paradossalmente il respiro narrativo è pure corto, i drammi familiari ruotano per il 90 per cento intorno a questioni di corna e tradimenti, non si parla d’altro, e se in una famiglia ampia, per la legge dei grandi numeri, è probabile il proliferare di problemi di coppia, d’altra parte è davvero poco credibile che non vi sia nient’altro ad animare le motivazioni di sì tanti personaggi. Muccino lascia l’impressione, per l’appunto, di essere sempre se stesso, di non vedere nessun altro dramma possibile se non quello dell’imprendibile felicità amorosa. La maturità artistica sembra averlo portato solo verso un’esponenziale moltiplicazione di un unico brano, sorretto a un’idea di vita e del mondo sostanzialmente esile. E’ un po’ l’evoluzione fino alle estreme conseguenze di L’ultimo bacio. Se allora i drammi sentimentali adottavano costanti sovratoni che sembravano desunti da convenzioni espressive e non da una qualsiasi realtà di riferimento, adesso rapito da una foga irrefrenabile Muccino pare avvertire il bisogno di duplicare tutto e tutti. La donna con marito affetto da Alzheimer deve avere un ex-marito che è stato a sua volta malato (perché?), e pure il padre di famiglia dev’essere stato fedifrago, la figlia tradita deve confrontarsi sul tema del tradimento con la madre che a suo tempo lo subì, l’artista di famiglia deve avere un figlio di cui non si occupa, il brav’uomo deve trovarsi alle prese con due famiglie, e via così. Se Muccino scavasse un po’ più a fondo nelle sue figure e mostrasse di ragionare su ciò che racconta, allora forse si potrebbe parlare di scelta autoriale. A casa tutti bene si congeda invece lasciando il sapore dell’ipertrofia fine a se stessa, schiacciata nel costante affanno di dover arricchire e motivare ad ogni costo qualsiasi figura che passi di lì, e sempre con i soliti ingredienti (un matrimonio fallito e/o una doppia famiglia non si negano a nessuno). In un ben orchestrato caos di figure, tutte più o meno riescono miracolosamente a essere narrate, e questo è un pieno merito del film. Ma si è altrettanto sicuri che dopo pochi giorni nessuna resterà nei nostri ricordi. Forse solo Sandro, una dolorosa figura di affetto da Alzheimer raccontato davvero con buoni accenti e ben incarnato da Massimo Ghini. A lui è riservata una delle sequenze più riuscite, quel bel confronto in giardino con Elettra/Valeria Solarino dove l’illusione della felicità si tramuta in necessaria, da elargire agli altri e a se stessi per poter continuare a vivere, nonostante tutto. Purtroppo resta anche una sensazione dominante di estremo artificio conseguito tramite strumenti di presunta crudeltà realistica. Eccesso senza profondità. La messinscena è come sempre apprezzabile, peccato che sia mal riposta. Ma d’altra parte è sempre lui, Gabriele Muccino, prendere o lasciare. È l’immenso paradosso di un cinema che pone aut-aut allo spettatore senza avere il rigore di chi, in genere, promuove aut-aut estetici.
Massimiliano Schiavoni