Corpi che danzano, corpi che possono o che non possono dare la vita, corpi che fremono di (bi)sessualità e passione, corpi di uomini e donne presenti in tutta la loro fisicità, corpi di bambini che mancano dopo averli restituiti ai servizi sociali. Corpi potenti e corpi impotenti, corpi desiderosi e corpi desiderati, corpi energici e corpi infedeli, corpi lascivi e corpi promiscui, corpi che si sfiorano e corpi che si appartengono. Corpi che si fanno linguaggio, movimento, libertà, espressione, estasi e orgasmo pansessuale; corpi da distruggere (magari nel fuoco) per ricreare dal nulla e ricostruire (una famiglia impossibile). Gira tutto intorno al corpo in Ema, spiazzante e del tutto inaspettatamente infelice ritorno in patria di Pablo Larraín dopo l’incursione hollywoodiana di Jackie, presentato con tutte le sue sterilità malamente dissimulate dietro a fastidiose, costruite e autocompiaciute furbizie modaiole in concorso alla 76ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia come più bruciante, amara e sconcertante delusione cinematografica dell’anno. Un corpo, quello psicopatico e manipolatore quanto per chiunque irresistibile della protagonista Ema, che è dinamica erotica di potere, merce di scambio e ricatto carnale o emotivo, mezzo di seduzione consapevolmente e ipocritamente (auto)sfruttato per manipolare e prendere il controllo sugli altri, e quindi in potenza ideale prosecuzione, dopo avere straordinariamente esplorato il potere politico, quello mediatico e quello religioso, del cinema di Larraín. Eppure questa volta, per la prima volta, il meccanismo dell’autore cileno si inceppa in un progetto fatto di assunti banalissimi e pretenziosità assortite, drammaticamente sbagliato per idea, scrittura e realizzazione, che nel suo smaccato guardare a Lynch, a Refn, al Teorema di Pasolini e ad Harmony Korine, nel tentativo di sorprendere e ostentare assoluta libertà cinematografica finisce piuttosto, nell’accatastarsi di differenti registri, frammenti di coreografie reggaeton e dialoghi – basterebbe citare il patetico e demenziale «preservativo umano» con cui Ema definisce il marito – per svelarsi in tutta la sua costruzione a tavolino. Un film freddo, pretestuoso, sbalestrato, confuso, ombelicale oltre il limitare del ridicolo (in)volontario, adolescenziale nelle fantasie erotiche come nell’immaginario, e non certo in ultimo più che vagamente misogino nel piano diabolico della protagonista e nel suo malizioso, scaltro, ipocrita e distruttivo ricorso alla seduzione come mezzo per raggiungere quel che vuole. Un pastrocchio “brutto” sino ai limiti dell’irricevibile, sonora caduta che, da un autore così importante, intelligente, profondo e stratificato, si pensava impossibile. E forse ancor peggio un film profondamente insincero, pilotato in una falsa stravaganza psichedelica e disorientante che nient’altro è che una trappola di hipsteria e fighettitudine architettata al millesimo per tendere a un fascino malato che possa fare breccia nel pubblico pop dei videoclip e delle luci al neon, glaciale e drammaticamente lontano dai personaggi bipolari messi in scena, strumentalizzati da Larraín almeno quanto li strumentalizza una protagonista con cui è impossibile empatizzare.
Inizia con un semaforo in fiamme Ema, per poi passare alla danza di gruppo fra musiche elettroniche e schermi colorati, all’ufficio dell’assistente sociale in cui Ema (Mariana Di Girolamo) chiede notizie del figlio problematico che ha adottato e poi abbandonato in seguito al suo tentativo di ucciderne la sorella, e infine a casa, dove nella perfetta frontalità e simmetria delle uniche inquadrature in cui realmente si riconosce la mano di Larraín si certifica come la decisione di aver restituito il piccolo Polo abbia ufficialmente aperto la crisi con il marito e coreografo Gastòn (uno spento e poco credibile Gael Garcia Bernal), ex omosessuale “convertito” nell’identità (e quindi già reso pedina e manovrato) in passato. Ema vorrebbe riprendersi il figlio ormai affidato a un’altra famiglia, disposta a tutto – mandare a monte matrimoni a partire dal suo, sedurre uomini e donne, cambiare continuamente partner in un progressivo delirio orgiastico di luci azzurrate e fluorescenti, pedinare la nuova famiglia di Polo e persino farsi assumere come insegnante di danza nella sua scuola – pur di riaverlo, probabilmente più per affetto nei confronti del suo ruolo di madre che del bambino. Perché no, Ema, proprio come il film che porta il suo nome, non prova mai reale affetto, non apre mai a una reale introspezione. Desidera anche con ardore ma mai si innamora, seduce ma mai rimane legata, e anzi usa deliberatamente il sesso e le persone coinvolte per controllarle e spostarle come pedine fino a giungere ai suoi fini – famiglie distrutte come il napalm del suo lanciafiamme che insistitamente brucia la città per ricostruire un futuro dalle sue macerie, o forse il ventre gonfio di una «vera madre» in attesa di un bambino, fratello di Polo, in un certo modo figlio di tutti e due i suoi padri e di tutte e due le sue mamme. Una manipolatrice ambigua e spietata, anarchica, istintiva e apparentemente illogica, quando in realtà dietro a ogni sua azione si cela un disegno – quasi a contraddire quella presunta libertà che il film vorrebbe dimostrare nel suo ondivago procedere – perfettamente calcolato, disposta a passare su chiunque pur di ottenere tutto ciò che vuole trovando terreno fertile per i suoi piani in una società contemporanea sempre più superficiale e controllabile, più che mai plasmabile nella sua catatonia interrotta solo dalle esplosioni di energia delle danze contemporanee. Una società di inutili test psicoattitudinali che tracciano profili solo parziali e ormai incapace di vedere al di là dell’immediato, di andare in profondità, di rimettere realmente a fuoco le proprie vite, ed è paradossale come nella fotografia pulita e ipercolorata di Ema, così lontana dalle nebulose sovraesposizioni a cui aveva abituato Pablo Larraín, si nasconda in realtà un opposto, e almeno in parte consapevole, appannarsi dello sguardo del regista cileno. Lo sguardo di chi, spostandosi dalla Storia al contemporaneo, non riesce più a capire i giovani, i loro gusti, le loro passioni, e proprio per questo ha deciso – sbagliando – di svoltare radicalmente dalla sua precedente filmografia per tentare di metterli in scena nei loro gusti e nei loro pensieri così lontani. Un po’ come nel botta e risposta in cui Gastòn fa notare alla ormai ex moglie e alle sue erinniche complici del corpo di ballo come il reggaeton sia umiliante per le donne nello sculettare per eccitare chi le guarda, ricevendo in risposta come quella danza di corpi dimenati sia al contrario percepita dalle danzatrici come sesso, orgasmo, e quindi vita. Quello stesso godere che vogliono vedere, come uno studio antropologico, sul volto dei/delle loro partner di un momento, oppure quello da cui nasce ogni nuova vita.
«Yo soy el mal», dice apertamente Ema preannunciando il suo disegno svelato poco a poco, una tappa erotica dopo l’altra, fra una coreografia a teatro e una in strada, fra un incontro e una scopata come ricerca spasmodica dei desideri più reconditi e frustrati di chiunque le capiti a tiro. Come se il futuro ricostruito dopo la sua distruzione con l’onnipresente (e inelegante) metafora del fuoco nient’altro fosse che manipolare, come se l’emancipazione femminile fosse un sostanziale meretricio, di fatto ben poco differente da un ribaltamento altrettanto immorale degli scandali sesso&potere da Harvey Weinstein in giù, con cui raggirare e sfruttare gli uomini (e le donne) che fanno parte del suo microcosmo, che volenti o nolenti si trovano sulla sua strada. Dal marito a entrambi i nuovi genitori affidatari di Polo – lui pompiere e lei avvocatessa divorzista da contattare a costo di bruciare la città e lasciare Gastòn – di una nuova e assurda famiglia allargata nella passione, passando per quelle amiche e colleghe della sbalestrata compagnia di danza che le forniranno i necessari appoggi e quella continua tensione sessuale di cui ha bisogno. Sfruttando senza pietà le altrui insicurezze e l’altrui bisogno d’eros, masticando e risputando in nuova forma gli altri esseri umani, in una lettura del ruolo della donna difficilmente accettabile specialmente da un autore che in passato era riuscito a trovare un’umanità sconfinata anche nella mancanza di emozioni del becchino che preparò il corpo di Allende dopo l’attentato, nel non pentimento di un prete pedofilo, nella polizia alla caccia di Neruda, e persino nell’organizzazione di quello spettacolare funerale con cui Jackie Kennedy futura signora Onassis assicurò nell’immaginario collettivo redenzione eterna ed eroismo a un marito al quale di certo non mancavano gli scheletri nell’armadio. Ema, all’opposto, non apre mai alcuno spiraglio emotivo, non disvela mai (a differenza dei ridondanti “spiegoni” di Larraín e delle carrellate su ogni personaggio che elidono ogni possibile potenza del finale) quali siano le sue reali motivazioni, che cosa realmente da dentro la spinga ad agire come una giocatrice di scacchi che al posto delle pedine muove gli altrui sentimenti e gli altrui desideri. Senza una vera e propria psicopatologia a muoverla, ma un qualcosa di più malato e perverso, ambiguo, che vorrebbe porsi come inafferrabile ma finisce invece per rivelarsi vuoto. Preferisce ballare e sedurre, usare il linguaggio del corpo, spogliarsi senza mai sbottonarsi, seguita da Pablo Larraín in una narrazione episodica e sfilacciata che continua a mettere carne al fuoco senza in realtà avere nulla o quasi da dire, nulla su cui realmente ragionare al di là di un erotismo ora esplicito e ora latente, ora desiderato e ora consumato nel tempo di un fugace orgasmo, ma mai nemmeno per un momento mosso da un qualche sentimento. Rimangono solo i movimenti di macchina, i colori, le coreografie, con un virtuosismo fuori dalle corde del regista, che invece che sottolineare la libertà della sua protagonista finisce piuttosto per affossarla, giudicarla, condannarla. Lasciando un enorme dolore nel cuore a chi ha sempre amato Pablo Larraín e il suo cinema tutto giocato fra potere e storia. Un po’ come tornare a casa e trovare la propria moglie non solo fedifraga, ma direttamente impegnata in un’orgia.
Marco Romagna