I primi minuti di Marriage Story sono già una folgorante rappresentazione dell’essenza di un rapporto. In un intimo e delicato ‘montage’ di momenti dolci e dichiarazioni d’amore, Nicole (Scarlett Johansson) e Charlie (Adam Driver) raccontano quello che amano l’uno dell’altra, già sapendo che sta per giungere inesorabilmente una separazione che comprometterà tutto. Il film, produzione Netflix presentata in concorso alla 76ma Mostra di Venezia, ha un titolo che pare quasi ironico, considerando come l’impronta generale lasciata dalla sceneggiatura del film sia quella del racconto di un divorzio; ma, del resto, si può rappresentare la gioia della vita efficacemente se non ci si confronta con il potere distruttivo della morte? Noah Baumbach, attualmente in una felice relazione con Greta Gerwig, arriva al racconto denso e personale del travaglio vissuto con il divorzio con Jennifer Jason Leigh di quasi un decennio fa. Decide di entrare approfonditamente nel discorso, costruisce una commedia dai toni agrodolci, con momenti disperati e densamente bergmaniani (del resto è sin dal titolo che viene citato direttamente Scene da un matrimonio), in cui, tramite ellissi temporali e un montaggio alternato che sostanzialmente delinea in maniera disordinata ma non invasiva la struttura dell’intreccio, il punto di vista diretto di Nicole e quello di Charlie sono di continuo sovrapposti, vissuti, ricreati. Sono raccontate, con questo confronto, due lotte diverse: quella di Charlie consiste con il mantenere la propria voce, quella di Nicole invece col ritrovarla, col liberarsi dalla co-dipendenza e dalla necessità di aggrapparsi alla voce di un altro per esplodere con la propria – il che forse, più che la Leigh, potrebbe far parte del rapporto tra l’autore e la sua attuale compagna, attualmente agli esordi con la regia. Baumbach, giunto dopo il mezzo passo falso di The Meyerowitz Stories probabilmente al titolo della definitiva maturazione, ambizioso, profondo e riuscito come mai nella sua carriera, colpisce da subito lo spettatore con il romanticismo dei primi minuti del film anche un po’ con sadismo, perché per il resto dell’esperienza della visione quel montaggio iniziale apparirà sempre di più come un miraggio distante, come un’antitesi rispetto alla destrutturazione psicologica e umana che i protagonisti subiscono progressivamente durante le fluviali 2 ore e un quarto per le quali il film prosegue. È una durata, per un prodotto del genere, tendenzialmente rischiosa, ma la scrittura di Baumbach completa il passaggio del tempo riempiendo ogni dialogo con qualcosa, e dando sostanzialmente al film intero una struttura antidogmatica, un flusso continuo, destinato ad avere delle piccole esplosioni come dei piccoli momenti di quiete. Di base, il conflitto che è raccontato è quello che si può creare tra un artista narcisista dal pensiero newyorchese e un’ambiziosa attrice dall’animo losangelino: molta dell’attenzione della storia è posta sulla distanza geografica e culturale tra le due città, ed è forte il sospetto che più che fare un discorso sull’America l’autore voglia usare i km per rappresentare su un piano allegorico un allontanamento di mentalità. Quand’è che l’uno smette di avere bisogno dell’altra, o viceversa? Qual è il vero egoismo, dov’è c’è stato l’amore, c’è mai del vero odio? Marriage Story si pone queste domande procedendo tra un frammento e l’altro, costruendo un mosaico di attimi umani funzionali alla circoscrizione narrativa di due personaggi archetipici che però sono incredibilmente umani, spontanei, vivi. Non è un’interazione tra macchiette – per quanto i passaggi interni del divorzio siano estremamente specifici, Driver e la Johansson, entrambi giunti a interpretazioni tra le più potenti di tutte le loro carriere, si fanno voce di dilemmi in cui chiunque si può immedesimare, con una struttura melodrammatica che pulsa, cresce, implode.
Sul livello della scrittura, Baumbach riesce adeguatamente a sfruttare la verbosità a favore usando i personaggi degli avvocati, interpretati da Alan Alda, Ray Liotta e Laura Dern, che diventano delle “estensioni” insopportabili del raziocinio più misantropo e conflittuale degli ego dei due. Nicole ha bisogno di un personaggio come quello di Laura Dern, evidente squalo (semplicemente strepitoso il suo monologo sul limitar della blasfemia tutto di metafore mariane e di affondi satirici) che riesce a indossare una convincente maschera da “supporter” emotiva, macchina di empatia che trasforma il dolore in soddisfazione giuridica. Charlie, nel suo tentativo forse fallimentare di abbattere il proprio ego per allinearsi con un ipotetico bene comune, passa per due avvocati, per due rappresentazioni di quello che vuole essere, che vanno dal vecchio rincoglionito che però lo capisce e lo abbraccia (Alan Alda) al mostro mangiasoldi capace solo di emanare veleno ed energia distruttiva (Ray Liotta). La verità, si capirà presto, è che nessuno dei due lo voleva; non il divorzio, ma questo lavoro di sostituzione violenta e legislativa di un impulso invero inspiegabile e irrazionalizzabile entro i confini delle sovrastrutture sociali come questo, l’indescrivibile sentimento di disappunto e rabbia repressa che trasforma l’amore in odio. Uno dei momenti più brillanti di Marriage Story vede una discussione disumana in tribunale con un litigio tra gli avvocati che si fanno portavoce di piccolezze che i coniugi si sono detti intimamente, tramutandole con la violenza della legge in accuse capitali, in demolizioni personali; per quasi tutta la scena, Ray Liotta e Laura Dern sono a fuoco, Adam Driver e Scarlett Johansson sfocati, in sottofondo. Scompaiono di fronte al potere di quello che hanno deciso di rappresentare, necessitando che qualcuno faccia le veci del loro essere più profondo e rude, la “verità peggiore” che si portano dentro. Appena dopo, si trovano faccia a faccia, senza nessuno attorno, nella casa di lui, ed esplode un dibattito che invece finalmente si concentra su quello che c’è dentro, che è irrazionale e che nel momento in cui diviene dialogo porta il peggio di entrambi a ricoprire la superficie. Ogni azione diventa violenta, e l’unico modo per capirsi ed entrare l’uno nella mente dell’altro è smettendo di parlare, con il linguaggio fisico invece di quello verbale, o con il ricordo che sostituisce la drammatica irreversibilità di un presente che sembra sempre più inaccettabile. È, insieme alla breve quanto intensa “scena del cancello” dove basta uno sguardo per dire tutto, al succitato prologo e all’infinito pianosequenza in cui Charlie canta nel pub, il momento più idoneamente emotivo del film. Tutte scene che sostituiscono il potere della parola allo sguardo, alla sensazione generale in opposizione al bisogno di dare un senso e un’intelligenza all’attimo, al pelo nell’uovo.
C’è chi potrebbe dire che Marriage Story è un film chiuso in quanto profondamente dipendente dalla forza della sua sceneggiatura, dalle potenzialità esplosive dell’andirivieni umano e dialogico dei due personaggi, e dalla costruzione del loro conflitto. L’anno scorso, sempre a Venezia, abbiamo visto Nuestro Tiempo di Carlos Reygadas, che pur non raccontando una separazione vera e propria è un’intensa rappresentazione di una destrutturazione di un rapporto sentimentale dall’interno, e lì invece si aveva l’opposta sensazione che fosse tutto basato sulla regia e sulla fotogenìa, sulla visionarietà dell’autore che riesce a dare vita e poesia a una messinscena dal sapore etereo ed esistenziale che spesso si dimostra straziante e altrettanto spesso vacua. Sono due film interessanti da paragonare, perché entrambi propongono un’esperienza lunga, appagante e completa, ma dove Reygadas decide di dare vita e immagine al simbolismo per sostituire quello che la parola non riesce a completare, a volte proponendo sequenze illuminanti e a volte invece trovandosi in difficoltà nell’impegnativa ricerca di una profondità, Baumbach si attiene alla didascalica descrizione della dialettica del divorzio, ma nel farlo sviluppa un amore per la parola che diventa, come nel rapporto tra i protagonisti, un odio. Il dialogo triste diventa un abbraccio felice, le labbra che sputano sentenze cominciano a essere serrate e silenziose, la commedia sentimentale si fa dramma esistenziale (e biunivoco: non solo il dramma di essere “fatti in un certo modo”, ma anche la problematica del dover far convivere la propria essenza con l’essenza di un’apparente “anima gemella” la cui personalità è nel contempo complementare e opposta), il mini-cutter con lama retrattile di Charlie all’improvviso taglia davvero invece di essere un gioco, e così via. Tutto cambia. Forse non c’è bisogno di un film che lo dica, ma Marriage Story riesce, meglio di molti altri film che lavorano sul tema, a restituire allo spettatore la profondità struggente del viavai emotivo dell’amore, con una spontaneità che ha dell’innaturale (commento banale: una sceneggiatura che completa alla perfezione gli attori e viceversa) e riuscendo spesso a far andare di pari passo la battuta giusta con il corretto cambio di campo, in una progressione drammatica in cui il movimento di macchina descrittivo più fluido, il taglio veloce più funzionale e l’evoluzione discorsiva a effetto vanno di pari passo per costruire una macchina cinematografica perfettamente americana, una storia intensissima alla quale è applicata una grammatica adatta, inequivocabile, essenziale. Può essere patinato e forse anche un poco prolisso, è vero, ma Marriage Story ha senso di esistere, emotivamente, come memoria e immaginario di un rapporto in cui chiunque conosca o abbia conosciuto l’amore può rivivere un pezzo di sé, riflettere sui propri errori, rivalutare il proprio essere rispetto agli altri. Deprimente e catartico, come il ricordo di una tenerezza lontana…
Nicola Settis