Passa attraverso le barricate di fuoco, l’auto presidenziale blindata di Chun Doo-hwan protetta da tutta la più brutale violenza di cui possono essere capaci le forze dell’ordine. È il 1986, l’ultimo anno della sua dittatura militare sulla Corea del Sud mal dissimulata nel più conciliante nome di “Quinta Repubblica”. Un anno di riemergere della pubblica collera, del ribollire sociale, delle rivolte popolari contro quel potere che, sin dal colpo di Stato del ’79 e ancor più dal 18 maggio dell’anno successivo con il massacro di Gwangju, aveva affogato l’opposizione democratica al regime nel sangue degli studenti e dei professori che avevano osato sollevarsi. Ed è proprio fra gli ultimi aberranti colpi di coda della dittatura che Memories of Murder, capolavoro con il quale nel 2003 Bong Joon-ho si impose all’attenzione internazionale come autore straordinario e sempre straordinariamente politico, trova il reale e più profondo senso della spirale di impotenza e frustrazione che mette in scena. Di lì a pochi mesi la resistenza avrebbe vinto, si sarebbero tenute le prime libere elezioni e la Corea avrebbe iniziato il lento e difficile percorso verso l’attuale (e comunque illusoria nelle iniquità sociali del Capitalismo, come testimoniato dallo stesso Bong nella recentissima Palma d’Oro Parasite) modernità democratica e tecnologica, ma ai tempi in cui iniziò a colpire il primo e tutt’ora impunito serial killer coreano, attivo fra l’86 e il ’91 nelle campagne del Gyeonggi, la polizia del tempo non era in alcun modo in grado di affrontare un caso troppo grande per lei, non era in grado di svolgere indagini capillari che non si basassero sull’intuizione (spesso sbagliata) e sull’istituzione di un capro espiatorio, sulle false prove impunemente fabbricate per l’occasione e sulla violenza con cui estorcere false confessioni a innocenti da dare in pasto all’opinione pubblica, e per un oggi banalissimo test del DNA aveva ancora bisogno di spedire i campioni fino ai laboratori dei lontanissimi Stati Uniti e attendere (im)pazientemente i risultati. Per poi magari, per un semplice chiodo e un comune principio setticemia incurato nella malasanità del tempo, essere costretta a perdere proprio quella gamba destra che tanti calci volanti aveva tirato in faccia ai sospettati, spesso e volentieri innocenti, incastrati con la minaccia di seppellirli vivi. L’unica possibile e acidula parvenza di “giustizia” secondo Bong, quella del karma, o più probabilmente l’istituzione di un’altra vittima, di un’altra malinconia, di un’altra angoscia che avviluppa i personaggi e la profonda empatia che il regista cuce loro attorno, nei loro errori e nella loro umanità che si esalta di fronte alle serie poliziesche americane, specchio della propria inettitudine e del proprio doloroso fallimento.
Basato in grandissima parte sull’inchiesta condotta al tempo dal leggendario reporter Park – esplicitamente citato nei dialoghi come assente fra i giornalisti che si accalcano su una delle tante scene del delitto – sul Kyung-in Daily News, Memories of Murder è una spirale di impotenza e frustrazione, è una progressiva perdita di fiducia nelle proprie capacità mentre l’assassino continua a colpire e quella cittadinanza che non si è in grado di difendere continua a morire, è lo scontro (anche fisico e violento) fra due diversi modi etici e più o meno razionali di agire e indagare destinati gradualmente a confondersi e a ribaltarsi, ed è soprattuto un trattato sull’inconsistenza culturale di un regime violento, in cui fra i due investigatori/picchiatori Park e Cho incaricati delle indagini e il vomito improvviso del loro capo alcolizzato servirà Seo, detective giunto volontariamente da Seoul a contribuire all’investigazione, per rendersi conto del modus operandi dell’omicida, per trovare la terza (o meglio prima) vittima e per saper leggere i documenti alla ricerca della verità. Ma anche Seo, sorta di novello Dale Cooper giunto senza passato fra i locali “infernali Quinlan” il cui intuito non è più sufficiente nell’equivalente bucolico di una Twin Peaks del trentottesimo parallelo a portare l’intelletto per poi perderlo, nulla potrà di fronte ai continui fallimenti se non veder cadere una a una le proprie certezze, demoralizzarsi, delirare, estrarre la pistola, e poi vedere il sospettato che per l’ultima volta corre via nell’oscurità. Perché non può avere un volto riconoscibile, l’omicida, e mai lo avrà. Non lo ha avuto nella Storia, non può averlo nella sua ricostruzione. L’omicida è un uomo comune, è un’ombra destinata a perdersi nella folla, in un certo senso siamo tutti noi. L’omicida è l’ennesima pedina di una società in cui anche gli apparenti carnefici sono vittime del sistema che sta al di sopra di loro, in cui anche i tutori più spietati e violenti di un ordine che, ben più che alla giustizia, bada alla facciata e allo spettacolo della ricostruzione dell’omicidio a favore delle camere dei giornalisti, sono semplici attori che nulla possono in un’indagine priva di un possibile regista. Atomi di una società sospesa fra la dittatura militare e il capitalismo, in cui tutti sono colpevoli e nessuno è realmente colpevole, in cui è in un certo senso l’ineluttabile quotidianità a colpire e a creare il suo stesso punto di rottura. In un procedere asfissiante e spietato verso un vuoto apparentemente sempre più crudele, e invece dolente, lacrimato, amarissimo.
Riproiettato come “Crazy Midnight” sullo schermo gigante della Piazza Grande in occasione del dell’Excellence Award tributato dal 72mo Locarno Film Festival all’attore (feticcio) Song Kang-ho, Memories of Murder già segnava gli argini, da secondo lungometraggio e probabilmente da opera più riuscita – per ora – della brillante carriera, di tutta l’essenza più intima e preziosa del cinema di Bong Joon-ho. Un cinema in cui la perfetta exploitation del “genere” – in questo caso il poliziesco, successivamente anche la fantascienza, l’horror e il thriller – si mette a pieno servizio della denuncia sociale e di uno sguardo pienamente politico. Un cinema in cui l’impeccabile e avvincente scansione narrativa è sempre significante ricco di significati più profondi, in cui ogni singola e straordinariamente elegante inquadratura si fa linguaggio e lavoro per molti versi teorico di variazioni sui temi del noir, dell’action, del crime, del mistero, dell’avventura, dello slasher e persino del dramma, e in cui ogni fase dell’indagine sembra partire da una piena coerenza logica, ma puntualmente nel sottobosco di sottoproletari, erotomani, ritardati, sfigurati e disperati rievocato e rimesso in scena si dimostrerà la direzione sbagliata, un infierire gratuito, un fallire e perdere la lotta pur mettendocela tutta. C’è ovviamente la detection in Memories of Murder, con la graduale e dettagliata scoperta dell’atroce modus operandi del killer fra immobilizzazioni, stordimenti, stupri, soffocamenti della vittima con le sue stesse mutandine calcate sulla testa e l’introduzione di oggetti nella sua vagina, c’è il progressivo rendersi conto che l’assassino agisce solo nelle notti di pioggia aggredendo vittime vestite di rosso mentre una radio locale, dietro diverse cartoline di richiesta, trasmette sempre la stessa canzone, c’è il tentativo andato a vuoto di incastrarlo con un’esca e ci sono l’impotenza e la frustrazione del nascere, dell’evolversi violento e del morire di ogni pista di fronte al successivo efferato omicidio, dell’apparente coerenza logica di ogni fase dell’indagine che sarà costantemente infranta dall’emergere di altre prove. Ma non c’è nulla di meramente spettacolare nella scrittura e nella messa in scena di Bong, non c’è nulla che, sotto la superficie dell’intrattenimento, non abbia una ben precisa chiave di lettura che parte dalla mappatura sociale e dalla ricostruzione del più famoso caso di cronaca nera degli anni Ottanta coreani per parlare al presente e al futuro di un Paese, e forse di tutto il mondo.
Basterebbe il primo e violento incontro/alterco con immediato fraintendimento fra Park e Seo che si conclude con lo specchietto dell’auto che da schermo nello schermo in cui vederli arrivare diventa palo a cui legare le manette, oppure basterebbero le due tesissime esplosioni musicali sull’attacco del killer e sull’inseguimento nella cava che a ogni visione meticciano la suspense di più classica memoria con i salti sulla sedia dei moderni jumpscare, o ancora basterebbero gli intensi primi piani sull’emergere della fragilità di chi si credeva un superuomo, con quella mano insanguinata di Park dopo che è passato il treno a uccidere l’unico testimone che avrebbe potuto identificare il killer. A umanizzarlo nella sua disperazione, nel suo tragico errore di averlo stupidamente ritenuto colpevole, di non essersi accorto che la sua precisione nel racconto – così differente da quello di pura fantasia della seconda confessione estorta al padre di famiglia erotomane ma innocente che si sente in colpa per le sue pulsioni – poteva essere solo quella di un testimone oculare, e infine di non essere stato in grado di salvarlo dalla morte. Mentre la razionalità di Seo vacilla di fronte ai test del DNA che non possono stabilire con certezza la colpevolezza del maggiore indiziato, e sarà proprio il brusco e impulsivo Park, quello che rubava scarpe dalle case dei sospettati per “trovare” una loro impronta sul luogo del delitto, a impedire ai suoi colpi di farlo passare dalla parte del torto. Non resta che inseguire le mutandine sbagliate e mancare ancora una volta il bersaglio, non resta che essere apertamente sfidati e perdere miseramente di fronte all’insufficienza di prove, non resta che smettere di fidarsi persino delle carte, non resta che affidarsi, seguendo i consigli della prostituta/infermiera di Park, agli inutili riti pagani della locale sensitiva. Magari mentre ricomincia a piovere e la radio trasmette ancora una volta Sad Letter, inno di morte prima del successivo cadavere. Non resta che ammettere la propria sconfitta, l’impossibilità di dare un’identità all’omicida, il fallimento nel tentativo sempre più disperato di spezzare la tragica catena di sevizie e morti. Non resta che arrendersi, ritirarsi e balzare alla contemporaneità del 2003, con Park ormai imprenditore che, passando di fronte al luogo del primo ritrovamento, non riesce a non ripensare alla sua ossessione di vita e a non tornare in quel lurido canale di scolo, a quelle “Memorie d’omicidio” che mai smetteranno di tormentarlo. Trovando magari una ragazzina che, nello stesso campo, fra le stesse spighe di grano, pochi giorni prima ha visto senza saperlo l’assassino tornato dopo diciassette anni sul luogo del delitto, ma non potrà mai ricordare un volto tanto comune, quello di un insospettabile uomo come tanti. Un volto mancato per pochissimo, forse un istante. Il nostro volto, forse.
Marco Romagna