Il primo Toy Story (1995) è ormai uno dei film più importanti della storia del cinema. Non sarà, forse, il film scritto, diretto o animato meglio della produzione Pixar, ma è il suo più grande vanto, uno dei passi più importanti fatti dal cinema nell’ultimo trentennio: il loro primo film, e il primo lungometraggio animato interamente in 3D, con sistemi digitali. Sono passati quasi 25 anni, e nel frattempo il digitale è diventato la norma, e non solo Toy Story è divenuto un franchise di enorme successo sia di critica che di pubblico, ma soprattutto la Pixar, inseparabile dalla Disney, ha affermato sempre di più il proprio marchio nel mondo dell’industria cinematografica mondiale raggiungendo sostanzialmente lo status di massima rappresentazione della qualità nell’ambito dell’animazione 3D. Certo, ci sono motivazioni di tipo tecnico: da Toy Story in poi, col miglioramento costante delle tecnologie e l’appoggio di Steve Jobs, i primi grandi miglioramenti nell’ambito del 3D non potevano che trovare come propri cavalli di battaglia proprio le uscite Pixar, e lentamente, dal mondo in miniatura dei giocattoli e degli insetti (nel sottovalutatissimo Bug’s Life), le poste si sono alzate. Alla ricerca di Nemo mette in scena l’oceano, Monsters Inc. un’intera società inventata da zero in cui ogni personaggio è diverso per dimensioni, movenze e anatomia, Gli incredibili è uno dei film d’azione più movimentati, iconici e sorprendenti dei suoi anni (e il suo recente sequel non ha sfigurato nell’integrarsi nella contemporaneità), Cars racconta il deserto e l’America degli stadi, Ratatouille la campagna, le fogne e le strade di Parigi con una perizia miracolosa, e Wall•E, forse il loro capolavoro, una Terra post-apocalittica e lo spazio. Per quanto nel frattempo altri studi come la Dreamworks, la Fox, la Illumination e la Aardman abbiano notevolmente contribuito ad alimentare l’immaginario dell’animazione 3D (in particolare con i franchise di Shrek e L’era glaciale che per popolarità – e poco altro – sono paragonabili a Toy Story), la Pixar ha continuato a sfornare film unici, ma da dopo Up qualcosa è cambiato. Arrivati gli anni ’10 e oltrepassato il conto di 10 lungometraggi (9 originali più Toy Story 2), anche la Pixar è tendenzialmente entrata nella logica dei sequel e dei prequel, lavorando più a ricostruire e a ri-attualizzare mondi precedentemente già raccontati che a costruirne di nuovi; a parte quattro film completamente originali (gli splendidi Inside Out e soprattutto Coco da una parte, i più disneyani Brave e Il viaggio di Arlo dall’altra), tutti gli altri sono stati espansioni di idee precedenti, ma anche in questo la Pixar ha dimostrato gusto e autocoscienza – non sembra mai di assistere a qualcosa di alieno, farlocco e forzato, ma è sempre evidente la tendenza all’approfondimento appassionato e intimo della matassa del racconto, accompagnato da un costante ed esibito miglioramento tecnologico. Sono usciti ad esempio Cars 3 e Gli Incredibili 2, in cui il realismo degli ambienti e il dinamismo anche dei momenti più insignificanti a volte lascia senza fiato – e accompagna sempre la progressiva caratterizzazione di personaggi sempre meno macchiettistici. Il prossimo lungometraggio Pixar sarà Onward, un altro prodotto originale il cui soggetto ricorda tanto Monsters, Inc. quanto Bright, uno dei primi film-fallimento ad alto budget prodotti da Netflix negli ultimi anni, ma l’ultima uscita, Toy Story 4, rientra nella logica del sequel con un approccio che ha a tratti dell’incredibile, soprattutto considerata l’esistenza di Toy Story 3.
Perché sì, il primo Toy Story sta all’animazione moderna probabilmente come Griffith sta al montaggio classico del cinema narrativo, ma il terzo capitolo del franchise è a occhi di molti, incluso chi scrive, il vero apice del racconto. Il perché appare immediato: tutti coloro che sono cresciuti da bimbi coi primi due Toy Story sono arrivati a Toy Story 3 cambiati nel profondo, ormai perlomeno adolescenti o addirittura adulti, e si sono ri-immersi in quel mondo aspettandosi un’esperienza nostalgica e divertente – ma la potenza educativa del mondo dei giocattoli non si è esaurita, poiché il finale strappalacrime del terzo capitolo è a conti fatti un momento tra i più strazianti e incredibili del cinema d’animazione tutto, capace di rappresentare un manifesto dell’eterno gioco infantile che la vita potrebbe essere (ma che spesso non è) con un impatto paragonabile a quello provato da tutti i bambini che, vedendo il primo Toy Story, l’hanno visto come il racconto della loro fantasia, del mondo magico irrealizzabile che si tengono dentro. Toy Story 3 ci ha ricordato che non si smette mai di crescere e ci ha fatto piangere facendoci tornare indietro, all’infanzia, per ricordarne le implicazioni, e perciò è parsa l’ideale conclusione della trilogia. Forse è perché a un livello conscio sotto sotto guardiamo con piglio materialista il mondo creato da Lasseter e vediamo comunque le avventure di Woody e Buzz & co. come parto dell’immaginazione di Andy, il loro bambino-proprietario, e perciò tutto è concesso perché tutto è… immaginario, una giustificazione infantile. In Toy Story 4, con Andy sostituito dalla piccola Bonnie, ci sono tuttavia almeno due momenti in cui le implicazioni cambiano in modo drastico e insospettabilmente profondo. Innanzitutto, Woody è ormai un giocattolo “in pensione”, che viene poco usato dalla propria padroncina, e nella sua ricerca di un senso e di un ruolo nella vita di Bonnie si ritrova involontariamente ad assisterla nella costruzione di un “giocattolo” goffo ideato a partire da oggetti mondani: è Forky, una forchetta di plastica dalle piccole braccia spugnose, attaccata a uno stecco di gelato spezzato in due con un gommino fissatutto – e anche Forky prende vita. Da ciò si finisce per immaginare noi stessi una logica nel cosmo di Toy Story, e la vita appare essere conferita ai giocattoli dall’immaginazione, o meglio ancora dalla volontà dell’immaginazione di rendere animato l’inanimato – anche nel senso letterale dell’animazione. Nel momento in cui Woody parla a Buzz della propria “voce interiore”, comprendiamo che la volontà del singolo soggetto (umano, bambino) è ciò che dà vita alla coscienza dell’oggetto (giocattolo, o, nel caso di Forky, spazzatura a cui è dato il ruolo di giocattolo…). In Toy Story 3, l’orso Lotso ammoniva i protagonisti con pessimismo, terrorizzandoli con la consapevolezza che ogni giocattolo diverrà prima o poi spazzatura; in Toy Story 4, il ciclo vitale si inverte e la spazzatura diviene giocattolo. Nel meccanismo del franchise, ciò significa che la spazzatura prende vita ma anche che idealmente per i nostri eroi la morte non esiste, mentre nel nostro mondo razionale l’essere giocattolo è non-essere quanto l’essere spazzatura; invero, la differenza tra la spazzatura e il giocattolo è il rapporto che si crea tra fruitore umano e oggetto, e il giocattolo è indubbiamente tra gli oggetti inanimati che più ricevono amore nel mondo umano – dunque alla volontà si aggiunge l’affetto dell’infante, irrazionale negli occhi dell’adulto ma vera dimostrazione di empatia… umana. Il giocattolo, per risposta, si attiene a delle regole non scritte e non dà mai il senso della propria esistenza al bambino, annullandosi di fronte a esso. Uno dei primi corti della Pixar, Tin Toy (che qui appare brevemente!), mostrava i giocattoli nascondersi da un pargolo bavoso che diventava angosciante, ma in Toy Story 4 è sempre più apparente come lo scopo ultimo del giocattolo sia il vivere in funzione dell’entità-bambino a esso superiore, anche rinunciando al proprio Sé, annullandosi per rendere felice l’altro.
Preso e considerato questo excursus (che potrei anche dilungare ma non mi pare il caso: in Toy Story permane lo scopo primario dell’intrattenimento per bambini, e la morale del racconto è sempre abbastanza evidente; le implicazioni filosofiche, etiche e forse addirittura spirituali di questo tipo di considerazioni sono una cosa a parte, più un divertissement degli sceneggiatori forse che un qualcosa di davvero integrato nello scopo morale ultimo del racconto, escluse forse i più immediati tra i concetti nominati – ovvero l’accento dato alla volontà di Bonnie e alla coscienza di Woody), Toy Story 4 è un bellissimo film che conferma la grandezza della Pixar proseguendo coraggiosamente oltre il “finale perfetto” del 3, perché: Toy Story 3 conclude il filone del franchise legato a Andy, mentre Toy Story 4 dà l’umanità (la volontà, la coscienza) di Andy a Woody. Buzz quando sente parlare della voce interiore di Woody è sconnesso dal vero significato di queste parole, confonde la coscienza con un qualcosa di esterno, la voce impiantata del giocattolo; che poi, a Woody, tra un intrigo e l’altro, viene tolta, trapiantata. Diventa una gag che porta Buzz in varie avventure slapstick, ma è implicato che solo Woody ha una così profonda concezione del proprio essere, solo lui è in questa crisi. La sua identità di giocattolo (la voce) viene estirpata, e così va verso un’avventura che prevede una ricerca di libertà, una nuova dimensione con cui liberarsi e uscire, dare voce alla propria coscienza… qualsiasi cosa essa sia. Per raccontare questo percorso, la storia del film attraversa varie situazioni semplici che si concatenano, ma ognuna di esse corrisponde a un momento di confronto per Woody, sia esso con Forky o con la nuova arrivata Gabbie, o con Bo Peep, importante in Toy Story e Toy Story 2 ma assente in Toy Story 3. Tramite lei o tramite i nuovi personaggi inseriti (anche Ducky e Bunny, doppiati in originale dal duo comico composto da Keegan-Michael Key e Jordan Peele – sì, proprio lui, il regista di Get Out e Us), Toy Story 4 finisce per essere una commedia dai toni quasi romantici, senza veri antagonisti, avventurosa ed esaltante. Forse per questo era necessario andare oltre la chiusura del cerchio del finale perfetto di Toy Story 3: perché, alla fine, il bambino interiore non è che l’abbiamo abbandonato lì, ma rimane dentro di noi, continua a divertirsi e a viaggiare in lungo e in largo. Ma è sempre più ingombrante la coscienza, ed è sempre più difficile divertirsi senza tenerne conto. Ma la Pixar ci riesce, tra progresso tecnologico e regia impeccabile, perché non smette mai di crederci, di immaginare, di infondere passione, di dare l’idea che c’è sempre qualcos’altro oltre il tangibile, qualcosa che non dobbiamo mai smettere di voler raccontare…
Nicola Settis