20 Giugno 2019 -

THAT CLOUD NEVER LEFT (2019)
di Yashaswini Raghunandan

«Non resteremo mai senza storie. Le storie andranno avanti per sempre». A costo di muoversi su rotte abbozzate e su ellittiche orbite circolari, a costo di ridursi a fotogramma graffiato, a materiale, a macchia di colore, a percezione, a fantasia, a quasi impercettibile brusio, a zona d’ombra di un’ipnotica ambiguità, a presenza quasi fantasmatica dall’impalpabile sibilo, o forse più semplicemente a suono che continua a propagarsi, continua a stimolare, continua a intrattenere, continua a vivere. Magari quello tipico di un qualche giocattolo sonoro di recupero fatto a mano con canne di bambù, argilla, plastica, fili, carta e fotogrammi di una qualche vecchia pellicola di Bollywood, sul quale l’intero villaggio indiano di Daspara, distretto di Murshidabad, Stato Federato del Bengala Occidentale quasi al confine con il Bangladesh, basa la propria quotidianità e la propria economia. Un suono che è un mormorio assiduo e incessante, dal ticchettio del proiettore al ludico ronzio dei kyatketi, dei fischietti e delle trottole da costruire e vendere nelle grandi e lontane città, o forse dalla realtà alla finzione, dall’antropologia all’inesauribilità del sogno, dalla luna rossa dell’eclisse che sta per esibirsi nel cielo all’enorme gelatina tonda attraverso cui osservarla, o ancora dall’incubo del sangue alla fantasticheria di un rubino magico con cui l’immaginario ridiventa narrazione, personaggi, vicende, ipnotica magia che come una pioggia (in)attesa continua a liberarsi dai suoi 35 millimetri di illusioni. Dal cinema al gioco, dal gioco all’immaginazione e poi di nuovo al cinema, perché nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto compresa l’emulsione si trasforma, sopravvive, ricomincia un nuovo ciclo fino a una vera e propria seconda vita lontana dallo schermo eppure al contempo su un nuovo schermo.
Una vita magari non del tutto risolta, magari parziale, magari da cercare di intravvedere fra le nuvole o attraverso l’effetto scia, i ronzii e i colori delle pale di un ventilatore, ma non per questo meno crepitante, chiassosa e turbinante, non per questo priva di un nuovo e totalmente inedito significato pronto a stratificare, innervare e nuovamente rivitalizzare lo stesso significante. È la vita dei giocattoli, certo, ma è anche la vita dei venditori ambulanti che li portano in giro per il subcontinente indiano, è anche la vita dei costruttori che con la pazienza dei popolani e la perizia degli artigiani li hanno forgiati riciclando quel che avevano a disposizione, è anche la vita dei bambini che sorridono tenendoli in mano e facendoli rumorosamente girare. Ed è anche la vita di quei vecchi e ormai (in)servibili film che ancora non si è esaurita, e che in un certo modo ancora trasmette i residui dei suoi colori e di quel suo vecchio immaginario a chi ancora ne maneggia e taglia le pellicole, a chi le trasforma in altro, senza più progressione né illusione di movimento, senza più la banda audio né le perforazioni ai lati, senza più una trama da raccontare né alcuna grammatica dello specifico filmico, eppure ancora sonore, ancora divertenti, ancora profondamente vive nei loro fuori quadro, nei loro materiali, nelle loro vibrazioni, nella finzione e negli immaginari che continuano a portare in dote come miraggi e squarci onirici nella realtà, o forse come una nebbia che la avvolge, la compenetra, la innerva. Come un temporale estivo, come un caleidoscopio di visioni, colori e presenze, come una televisione che rapisce pur trasmettendo solo fotogrammi, come l’aura di mistero seducente e quasi insondabile in cui immerge That cloud never left, affascinante esordio in solitaria dopo i cinque anni con il collettivo Behind the Tin Sheets con cui la giovane Yashaswini Raghunandan, in concorso alla 55ma Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro pochi mesi dopo la prima mondiale nel Bright Future del Festival di Rotterdam, insegue a ritroso i giocattoli per andare alla ricerca di quel che è rimasto dei fotogrammi.

Basta un fotogramma graffiato e coloratissimo per continuare a fantasticare sul suo prima e sul suo dopo, su quelle storie ancora tutte da raccontare, su come attraverso la pellicola/lente/gelatina cambi la visione del mondo e su come la luna sarà rossa anche se coperta dalle nuvole, invisibile, e quindi da (continuare) a immaginare nell’eterno ritorno al cinema come materiale. Basta un quadro in pellicola che è una carta marezzata dissolta sulla natura, è un collage emozionale di forme, filoni narrativi e ritmi cinematografici, è un (micro)cosmo o forse vero e proprio sistema solare di esseri umani e cooperazione, ed è un sospiro d’amore verso il New American Cinema e ogni avanguardia che unisce la sperimentazione, la politica, l’etnografia e le possibilità insite nel mezzo. Non serve che tutto torni, non serve risolvere e portare a termine ogni suggestione messa sullo schermo, basta l’impressione, lo spunto, l’abbozzo, la traccia da seguire, il percorso circolare e necessariamente disorientante da cui far ripartire la fantasia, l’estasi immaginifica, il cinema in ogni sua (nuova) forma. Ed è qui che paradossalmente That cloud never left, proprio nel suo ragionare su come sia la fisicità della materia a fare ancora vibrare la non fisicità ludica e narrativa del cinema, scopre il fianco a un unico dubbio, in realtà più di natura produttiva che concettuale. Perché avrebbe probabilmente avuto bisogno di essere girato in pellicola, il film di Yashaswini Raghunandan, avrebbe avuto bisogno di quella stessa matericità, di quella stessa pasta, di quelle stesse imperfezioni, di quegli stessi tremolii della luce su cui riflette. E il digitale sul quale il budget probabilmente ristretto ha dovuto far ripiegare, pur non intaccando la coerenza dei suoi discorsi né la potenza espressiva dei suoi istanti, non rende fino in fondo giustizia alla profondità delle sue riflessioni, né a tutto l’effettivo potenziale lirico di sovrapposizioni, collegamenti, nessi logici, audaci raccordi di montaggio, dettagli, storie, onirismi e fiabe che la regista indiana cuce insieme sulla sua ambiziosa e ipnotica tela di istanti, voci, immagini, impressioni e istanti. Perché è vero che la pellicola e il cinema possono continuare la propria vita in forme separate fra il giocattolo e l’immagine digitale, ma non potranno mai smettere di cercarsi, di collegarsi, di appartenersi in quella stessa matericità (de-morfizzata) del sogno.
È un film profondamente semiotico, That cloud never left. Un film fatto di segni ancor più che di simboli, di significanti puri alla ricerca di un nuovo senso come materiali da trasformare in altri oggetti. Un film fatto di emulsioni ancora da maneggiare e immaginari cinematografici che continuano la propria vita anche dopo la dismissione, l’oblio e la discarica, in una discesa verso l’archetipo del sogno da cui tornare all’origine del mezzo, al suo eterno potenziale immaginifico, ai suoi brandelli di narrazione infinita che si aggirano spettrali eppure palpabili, presenti, pulsanti nella loro unione di illusione e realtà, di verità e racconto, di osservazione e messa in scena. Un’eclisse parziale di 65 minuti che immerge in un cono d’ombra fantasmagorico e cangiante di spunti polimorfi per riflettere sulla matericità del cinema e delle storie in esso contenute, dai fotogrammi ai giocattoli passando per la modifica di ciò che fornisce la natura, o forse un’analisi semantica che cerca una nuova pragmatica dei materiali e degli oggetti studiando i frame, il colore, il suono e il ticchettio, fino a trasformare la realtà dei luoghi, delle persone e delle loro attività in un dichiarato «film di finzione» in cui quelle storie immortalate sulla pellicola ritornano nella creatività, nella percezione, nella fantasia, nel desiderio, nel gioco. Ritornano in una madre che anticipa la pioggia, ritornano in una coppia di fratelli che costruisce un osservatorio con il quale osservare la luna rossa attraverso un occhio di gelatina altrettanto rosso, ritornano nei bambini che immaginano – proprio come le vecchie pellicole, proprio come il bambù, proprio come l’argilla e la plastica manipolate con utensili semplici ed efficaci dall’intero villaggio in una magnifica collaborazione collettiva dal basso mentre chi non lavora cuoce il riso per tutti – di poter cambiare forma e diventare altro con cui continuare a giocare. Con quell’aspetto ludico di Bollywood, con la storia del cinema che si unisce alla storia del lavoro e alla storia della visione, con le schegge di finzione che, proprio come i costruttori di giocattoli, rendono altro un documentario etnografico di donne uomini e bambini impegnati a (con)vivere e a fidarsi l’uno dell’altro, o forse più in generale con un qualsiasi immaginario che a sua volta ha bisogno della realtà quotidiana per continuare a sopravvivere al di là della sua caducità fisica e industriale. Quell’immaginario a cui Yashaswini Raghunandan, con That cloud never left, ha scritto una preziosa lettera d’amore di immagini porose e sfuggenti. Come una nuvola che non se ne andrà mai, attraverso la quale cercare sempre nuovi modi di guardare il mondo, la realtà, la società, la pellicola, e ovviamente quelle storie che non finiranno mai, destinate ad andare avanti per sempre.

Marco Romagna

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