Buñuel si riserva un posto speciale nella selezione Cannes Classics di quest’anno, con ben tre titoli. Ma la verità è che avrà sempre uno spazio speciale, un ruolo a suo modo unico, nella storia del cinema tutto. È rappresentativo di una rivoluzione nell’approccio verso il rapporto significato/significante non indifferente, ed è tutto grazie a Un Chien Andalou che con l’immagine dell’occhio di vitello tagliato ha lasciato indelebile il marchio della verve insurrezionista e antidogmatica delle nuove applicazioni formali del cinema – che in quegli anni avanguardistici stava dando frutto in tutta Europa. Ma la collaborazione tra Buñuel e Dalì nella costruzione di un’epica simbolica del cinema surrealista non si ferma a Un Chien Andalou; l’altro capolavoro partorito dalla coppia, meno celebrato nei testi di storia della settima arte e più che altro tenuto in considerazione a livello critico e museale come continuazione e complicazione del discorso filmico cominciato col corto precedente, è L’age d’or. È un lungometraggio di poco più di un’ora che saltella sconsideratamente tra muto e sonoro, tra narrazione quasi lineare e uno pseudo-montaggio delle attrazioni costruito da connessioni mentali e visive non sempre basate su un criterio. Il prologo e l’epilogo, apparentemente sconnessi dal resto dell’intreccio, sono costituiti da un breve documentario sugli scorpioni e da una divagazione biblica su un personaggio delle 120 giornate di de Sade. L’ultima immagine è un crocifisso ricoperto da scalpi femminili. Prima ancora di finire di chiedersi cosa voleva dire l’opera, i rappresentanti delle associazioni di destra estrema spagnole e francesi hanno criticato aspramente il film, che è stato a lungo tenuto censurato e quasi nascosto a causa del contenuto esplicitamente più blasfemo e anticlericale che in Un Chien Andalou.
La verità è che Buñuel non è un regista impossibile da decodificare – queste accuse ignoranti che spesso vengono rivolte agli autori legati al surrealismo sono troppo spesso veicolate dalla scarsa capacità interpretativa dell’eventuale spettatore o anche dal passaggio del tempo, dal contesto storico del clamore e della censura. Lo spettatore odierno di fronte a L’age d’or può porsi con diversi sguardi, ma quello più diretto forse è il semplice distacco rispettoso verso la creatività e l’unicità culturale del film. Andando più in profondità, le chiavi di lettura dell’intreccio si sdoppiano nel momento in cui qualsiasi dettaglio può duplicarsi anche di senso. Il susseguirsi degli eventi, quando connesso quando sconnesso, gira comunque tendenzialmente attorno alla medesima coppia di amanti, che, secondo la più comune lettura, vorrebbero riunirsi ma sono perpetuamente ostacolati dagli elementi della società de “l’età d’Oro” (i ruggenti anni ’20 che stavano emanando il loro canto del cigno). Ma se così fosse, i personaggi sarebbero semplici pedine, tele bianche su cui sono dipinte le ossessioni di quel mondo. Così non è, perché il protagonista non è un qualsiasi prototipo adamitico ma un ridicolo mensch alla ricerca della conferma della propria forza mediante la violenza verso i più deboli, in un’escalation di frustrazione da cani a insetti a uomini ciechi fino alla rabbia esplosiva che fa volare un albero in fiamme e una giraffa fuori dalla sua finestra. Lei è una bugiarda e una perversa, e come ogni altro attorno a loro è definita dal materialismo dei propri possedimenti – i vestiti. La loro relazione morbosa e incomprensibile apre porte verso altri mondi ma scompare in un attimo in modo immotivato, lasciandoci sospesi. È qui che si apre una finestra verso l’apparente blasfemia, che forse è principalmente rappresentativa di un discorso critico al materialismo della façade delle organizzazioni ecclesiastiche. Il sacro è principalmente evocato o implicato, non messo in scena direttamente ma esperito attraverso uno sguardo atto a destrutturarne i preconcetti estetico-morali giusto per sputare negli occhi del buon gusto e della convenzione cinematografica – esplodendo con un senso di libertà che la maggior parte dei cineasti dell’epoca, ispirati dalla quadratezza compatta dello stile formatosi con gli americani, si sognavano.
In L’age d’or la narrazione è un’impalcatura mossa dalla provocazione, e l’iconografia è la linfa vitale di un significante veicolato da questa impalcatura. Le gerarchia di rapporti tra gli stati naturali dell’essere nella costruzione della non-storia di Buñuel e Dalì procede verso un conflitto/amplesso tra una figura maschile rappresentativa di un’identità basata sul concetto di destrudo mentre la figura femminile la contrasta con un forte senso di libido. Le immagini pubblicitarie sensuali creano una finestra d’immagine che si apre sul femminile, anticipando per certi versi la critica alla pornografia nell’oggettivizzazione del corpo femminile per scopi di advertising. L’immagine femminile si amalgama mediante il montaggio con un inconscio cinematografico che vira, privo di direzione, al di fuori dei parametri del senso, spostandosi narrativamente, dopo che la storia porta il protagonista maschile a esprimere la necessità di distruzione al di fuori dei limiti del senso come pure distrazione/manifestazione libera dei sensi a causa di una sorta di grottesco tradimento di aspettative sentimentali da parte dell’identità femminile, verso il biblico, la ri-trattazione del simbolo religioso-letterario in una rivoluzione interpretabile – proprio come alcuni quadri di Dalì, come Le tentazioni di S. Antonio, che mescolano il simbolismo cristiano con l’analisi dell’ego umano in relazione ai costrutti della società e ai desideri più inconsci, e al legame fra queste due influenze sul raziocinio dell’individuo. Scambiando i simboli in un flusso meta-culturale dagli sbocchi così aperti e vaghi porta il film a costituire davvero un proprio unico universo con la propria logica specifica, nello stesso modo in cui Un Chien Andalou permane probabilmente come la più affascinante supercazzola del cinema, una vera e propria barzelletta grottesca di umori e percezioni sensoriali a partire dal titolo privo di un senso fino al finale decontestualizzato e gratuitamente crudele. L’age d’or è un superamento, una maturazione: aumenta la durata, aumenta la percezione o l’apparenza di un senso più riconoscibile o perlomeno di una coerenza tematica più o meno lineare, si crea persino una struttura in tre atti per quanto il primo e il terzo siano legati al secondo dal tema del legame tra fede, violenza e sessualità senza una vera costruzione consequenziale dei punti di snodo della trama. Probabilmente la costruzione di una mitologia iconografica per il surrealismo (e dunque anche per l’interpretazione a 24 fotogrammi al secondo della visibilità dell’inconscio) negli ultimi 90 anni ha superato per potenza espressiva quello che Buñuel e Dalì avevano teorizzato, ma è inimmaginabile, ormai, un altro punto di partenza. L’assurdo è entrato nell’immaginario, l’immaginario si è evoluto in una fonte infinita di ispirazioni per un postmodernismo fatto di icone culturali, miraggi psicanalitici, parodie parossistiche, imitazioni e ineguagliabili inesattezze. Continuando nella libera associazione di idee, L’age d’or non smette mai di affascinare, e a ogni età rappresenta emozioni e burocrazie diverse. È una vera gioia per gli occhi e per le sinapsi: fa viaggiare in un passato irriconoscibile, irrappresentabile, e nel frattempo futuro. L’età dell’oro.
Nicola Settis