Sta nel continuo montaggio parallelo di luoghi e tempi la chiave di Zombi child, nuovo lavoro di Bertrand Bonello con cui il regista francese, dopo l’esclusione “politica” di Nocturama diventato forse fuori tempo massimo fra l’ideazione e la realizzazione in una Francia di attentati terroristici non più solo ipotizzati, torna al Festival di Cannes e alla sua Quinzaine des Réalisateurs. Sta nei continui passaggi fra la Haiti ancora schiavista degli anni Sessanta del regime di Duvalier e la Parigi di oggi, fra le piantagioni di zucchero e il più esclusivo dei collegi femminili con la sua fondazione napoleonica e le sue divise perfette, fra gli zombi (non ancora trasformati da “papà” Romero nei famelici zombie, e che anzi se dovessero mangiare carne o sale spezzerebbero l’incantesimo ritornando alla vita) che da secoli non-muoiono nella tradizione folklorica dell’isola caraibica e le studentesse, rigorosamente figlie di almeno un genitore decorato con la Legion d’onore, che si danno carbonari appuntamenti notturni nelle segrete del severo istituto. Parte dalla storia incredibile ma vera della zombificazione di Clairvius Narcisse morto nel 1962 e ritornato a casa nel 1980 già narrata da Il serpente e l’arcobaleno dell’etnologo Wade Davis – libro che già aveva liberamente ispirato l’omonimo film di Wes Craven dell’88 –, per spezzarla e renderla altro, variazione, archetipo, libera metafora, concatenazione di cause e di effetti fra il colonialismo e la cultura popolare, fra gli onori militari e il terremoto, fra i “nuovi zombi” che si moltiplicano e avanzano dietro allo schermo di uno smartphone e le evidenti dinamiche di nuovo schiavismo – Ken Loach docet – imposte dal Capitale non solo sulle ex-colonie. Passando magari per la voce fuori campo e i sogni delle lettere d’amore della bella Fanny a quel ragazzo che deciderà di non tornare. Ma non è tanto la non-morte di Clairvius il punto, non è il voodoo, non sono i demoni interiori e sociali di ieri e di oggi. Non è il folklore popolare, non sono gli zombi senza memoria mentre la memoria è tutta della ricca Francia elitaria e (ancora) militare che studia in divisa, e forse non sono nemmeno la Storia e la politica, che pure sono necessario punto di partenza e di approdo del film. Ciò che più preme a Zombi child, finendo paradossalmente per costituire il suo più grande limite, è creare contrasti e concatenazioni, è spezzare per spingere a riconsiderare, è rielaborare in parallelo per trovare il senso dell’identità fra il colonialismo, lo schiavismo e le colpe anche odierne della Francia. Limitandosi però troppo, quasi a lanciare il sasso e a nascondere la mano, a suggerire senza mai arrivare realmente a un rimettere in discussione in profondità, con un approccio che è senza dubbio affascinante e magari interessante, magari stimolante, magari a tratti anche lucido e brillante nell’insistito montaggio alternato che mette in luce l’uno e l’altro tema, ma in fin dei conti sterile, come una bella teoria priva o quasi di reale pratica.
Basterebbe in questo senso ragionare sugli approdi delle rispettive spezzettate parabole, con la francesissima Fanny a farsi manipolare per riagguantare l’amore – finendo ovviamente per farsi possedere per sbaglio dallo spirito più maligno di tutti – dalla più vicina mambo, e con la haitiana Melissa, orfana e scampata al terremoto del 2004, che finalmente si identificherà come l’ultima discendente di Clairvius, accompagnando con un (infinito) monologo alla conclusione anche (o forse sarebbe meglio dire solo, mentre tutto il resto rimane irrisolto) la parabola dello zombi tornato uomo al felice ritorno a casa e alla sua seconda vita. Come se nessuno sapesse nulla degli zombi tradizionali, come se il caposaldo I walked with a Zombi di Jacques Tourneur non fosse del 1943 e come se L’isola degli zombies di Victor Halperin con un indimenticabile Bela Lugosi non risalisse addirittura al ’32, Melissa finisce in sostanza per rivelare nei suoi esaspera(n)ti didascalismi come Zombi child, al di là delle buone premesse e di pochi e sparuti momenti di grazia (l’alternanza di buio e luce mentre lo zombi torna a brandelli di memoria, la danza solitaria, il lume di candela), nient’altro sia nei fatti che l’anticamera di un lungo spiegone, che cerca il fascino dell’utopia ma finisce alla lunga piuttosto per dire (o meglio ricordare, visto che di memoria si parla nel film) solo quanto è (sempre stato) fighetto il suo autore. Perché sì, c’è tutto Bonello, in Zombi child. C’è la sua scelta e direzione di straordinari giovani attori, c’è la sua fotografia curata negli scuri e nell’ipnotica soluzione dell’effetto notte con cui filmare gli zombi nel buio della storia, c’è il canto a cappella nella solitudine come comunicazione con l’onirico più extrasensoriale e ci sono le pulsioni – siano queste interiori o sociali – come unico reale rapporto di forza come rapporto di forza, c’è la cultura e c’è la sociologia, ci sono gli intenti politici e c’è un intelligente gioco dialettico fra implicito ed esplicito, ci sono i selfie con un manichino dopo avergli messo il rossetto e ci sono le trance che citano Jean Rouch. Ma, nel suo spezzare la storia teorizzato poco dopo l’incipit dal professore (interpretato non certo a caso da Patrick Boucheron, e per quanto la sua lettura storica sia illuminante già da questo, volendo fare i maliziosi, si potrebbe evincere quella volontà un po’ furbetta e paraculo di Bonello di strizzare l’occhio al suo pubblico decontestualizzando e ricontestualizzando uno dei più noti storici di Francia) rimane quasi tutto buttato lì, come una suggestione che stimola ma non vuole realmente cercare una reale riflessione, ma si limita a un gioco di incastri che parte lucido e in potenza illuminante per poi rivelarsi, appunto, un gioco. Non privo di una certa autoreferenzialità, né di una ben precisa malizia nella perfetta consapevolezza di quello che serve – e qui bussa alla porta la chiusa, forse anche un po’ oltraggiosa nella sua decontestualizzazione, sulla sempre magnifica You’ll Never Walk Alone – per strizzare l’occhio ai fan. Certo, rimane il suo lavoro – che forse non brilla per originalità – sullo spazio e sul tempo come dimensioni parallele, dal quale lo spettatore è pienamente libero di partire con le proprie riflessioni sulle possibili interpretazioni della figura dello zombi e sui tanti input che vengono lanciati, rimane il lavoro sulle forme dell’horror, rimane il fascino indiscutibile della prima parte. Ma da un autore con le potenzialità e con la vis politica di Bonello sarebbe più che lecito aspettarsi, quando è il momento di tirare le somme, un qualcosa di più. Poco importa se esplicito o sottotraccia, basta che sia un qualcosa che va oltre alla costruzione senza il tetto di qualche sporadica fiammata in uno smaccato ed eccessivo gigioneggiare.
Marco Romagna