17 Maggio 2019 -

SORRY WE MISSED YOU (2019)
di Ken Loach

Probabilmente è l’aria di Newcastle, a fare bene a Ken Loach e al suo storico sodale sceneggiatore Paul Laverty. O forse, dopo un decennio abbondante di opere minori, è solo un caso che sia I, Daniel Blake Palma d’oro di tre anni fa sia questo potente e disperatissimo Sorry we missed you presentato fra gli applausi in concorso al 72mo Festival di Cannes siano le uniche opere nella filmografia dell’ottantaduenne regista britannico ambientate, dopo una vita passata a girare fra Manchester, Glasgow, Londra e l’Irlanda, nella città inglese sul Tyne. Molto più probabilmente, alla base del ritorno della più militante e furibonda ispirazione che dopo i fasti degli anni Novanta nuovamente divampa e brucia negli ultimi due lavori del ‘Compagno’ Ken, ci sono più semplicemente i sempre più drammatici tempi vissuti dal proletariato, con i governi che cancellano i diritti già acquisiti dai lavoratori, con il precariato dilagante a eliminare ogni possibile forma di sicurezza, e con il sostanziale neoschiavismo dei lavori che diventano “autonomi” e “indipendenti” solo per ottimizzare costi e benefici dei soliti padroni mentre la forbice sociale si allarga fino a spezzarsi. Sono i tempi della gig economy e delle varianti locali di quello scempio del Jobs Act, sono tempi di sfruttamento selvaggio, di orari massacranti, di salari per i dipendenti (o meglio, di «onorari» per il «collaboratore») inesistenti senza il cottimo di chi non può mai fermarsi, nei quali le otto ore a tempo indeterminato sono ormai un lontano ricordo, nei quali non ci si può permettere di ammalarsi né di avere problemi familiari, e nei quali i dispositivi elettronici che dovrebbero semplificare il lavoro sono invece impostati come un’infallibile arma per controllare i subalterni e per garantire i folli ritmi di produzione e di efficienza. Sono i tempi di Amazon, gigante economico costruito sul sistematico sfruttamento di chi lavora nei magazzini pagato a numero di colli confezionati e spediti, e sono i tempi delle consegne dei pacchi, con quei pochi centesimi che, goccia dopo goccia, vanno a costruire lo stipendio da fame di chi non può fare a meno di accettare di sottomettersi per quattordici ore al giorno alle più inique e selvagge regole del Capitalismo e correre senza mai fermarsi da un indirizzo all’altro. Magari dopo essere già stati costretti, come il Ricky Turner interpretato dal rosso Kris Hitchen, a comprare di tasca propria il furgone con cui lavorare per evitare di affittarlo per 65 sterline al giorno dai proprietari del franchise, conscio che qualsiasi ritardo nella consegna dei pacchi, qualsiasi errore sul percorso imposto dal gps e qualsiasi rottura del suo palmare/guardiano – che suona quando Ricky si allontana dal furgone per più di due minuti, costringendolo a tenere sempre a portata di mano una bottiglia in cui poter pisciare – equivarranno a salate multe da pagare perdendo, nella marea di debiti e nella tutto sommato analoga situazione lavorativa della moglie infermiera a domicilio, ulteriori pezzi di una paga già insufficiente.

Sorry we missed you è la frase stampata sui biglietti da lasciare nella cassetta della posta quando non si trova in casa il destinatario della consegna. Biglietti che, esattamente come ogni pacco, vanno ovviamente scanditi uno a uno con la pistola ottica. Ricky, sin dal momento del colloquio di «collaborazione», e non di assunzione, per diventare «autista autonomo», si ritroverà in un ambiente totalmente impermeabile a qualsiasi umanità, competitivo fino alla morte, del tutto privo di qualsiasi comprensione o reciprocità. Un ambiente in cui non esistono ferie, non esistono permessi, non esistono garanzie, non esistono diritti, non esiste la mutua e ogni errore si paga a caro prezzo, nel quale è l’autista che deve trovare il proprio sostituto in caso di assenza, nel quale la povertà e la disperazione portano all’odio e nel quale non ci si fanno problemi a “tradire” i colleghi prendendo il loro carico proprio mentre il capo li sta licenziando. Conta solo consegnare tutti i pacchi nei tempi previsti, giorno dopo giorno fino a quello dello stipendio e poi fino allo stipendio successivo, a costo di lottare apertamente con i clienti che rifiutano di firmare o di mostrare il necessario documento da registrare, a costo di ritrovarsi a litigare – da nato a Manchester e tifoso dello United (per sempre) del loachiano Erik Cantona – con un hooligan del Newcastle che in una delle sequenze più memorabili del film ancora gli ricorda il 5-0 rifilato nel ’95, e soprattutto a costo di abbandonare o quasi una famiglia destinata a sfaldarsi e soffrire dell’assenza per troppo lavoro del padre proprio nel momento in cui servirebbe di più, quando il figlio adolescente, anche esasperato dalla situazione, inizia a saltare scuola per fondare – proprio sopra a una bandiera della Palestina dipinta sul muro che ulteriormente universalizza il discorso messo in scena – un improbabile gruppo di graffitari. Ed è proprio nel rapporto fra padre e figlio, più ancora che nei primi diverbi in un matrimonio apparentemente perfetto con una moglie costretta a spostarsi nel suo lavoro altrettanto precario in autobus perché la sua auto è stata venduta per pagare l’anticipo del furgone o nelle iniziative sbagliate poi confessate piangendo dalla figlia undicenne, che la regia splendidamente invisibile di Ken Loach, magistralmente fotografata in 16mm da Robbie Ryan, innesta il principale motore emotivo del film, il punto di non ritorno, lo spalancarsi definitivo del baratro e del consapevole martirio di chi, anche in convalescenza con un braccio quasi al collo, il viso sanguinante, un trauma cranico e l’intera famiglia che cerca di bloccarlo, non potrà fare a meno di alzarsi all’alba e innestare la retromarcia per andare a lavorare.

Perché, anche nella più aperta contraddizione, anche nello smettere di capirsi, anche nel continuo alzarsi della tensione, in Sorry we missed you tutti i personaggi hanno ragione, e nessuno, nella scrittura fluida e profondissima di Laverty, può fare nulla per evitare il precipitare della situazione verso il magnifico, potente e devastante crescendo finale. Ha ragione il protagonista Ricky, schiavo salariato che non può fare a meno di annullare la propria vita per poter sopravvivere. Ha ragione il figlio ribelle che si sente abbandonato, relegato nelle retrovie dei pensieri paterni e non più priorità, e che proprio per questo, con gli inevitabili equivoci e semplificazioni dell’adolescenza magari acuiti dalla reazione nervosa del padre di ritirargli il cellulare, si riprenderà la centralità rubando da scuola, facendosi sospendere, litigando e scappando da casa, ma saprà tornare nel momento del bisogno. Così come ha ragione la moglie, disposta ad accettare con maturità la situazione ma anche pronta, quando Ricky verrà aggredito da una banda di teppistelli, a strappare di mano al marito il telefono per urlare in faccia dal pronto soccorso dell’ospedale al suo capo tutto quello che Ricky non troverà mai il coraggio di digli, e paradossalmente ha ragione anche il perfido e insensibile gestore del magazzino dall’altra parte del cellulare, costretto a porsi come «il santo patrono dei figli di puttana» per garantire il servizio nell’inevitabile pletora di problemi personali di chi, per un motivo importante o per l’altro, non si presenta al lavoro. Certo, non manca qualche manicheismo, nel lavoro di Loach. Ma non c’è mai reale retorica, non c’è mai reale forzatura, non c’è mai reale esagerazione. C’è solo la realtà atroce e asfissiante del lavoro precario, c’è solo la povertà, c’è solo il più disperato bisogno di guadagnare per vivere. Anzi, è proprio nel suo aperto e doloroso schierarsi a fianco degli ultimi che Sorry we missed you, di gran lunga fra i migliori lavori del regista a pugno chiuso, trova la sua principale forza. Una forza che è al contempo politica e di sguardo, sociale e cinematografica, che si immerge anima e corpo in una situazione, in una famiglia, in un mondo, pronta a ritornare come una sassata, come un pugno nello stomaco, come una catarsi. Una forza che nient’altro è che la profondissima dignità dei personaggi, la loro umanità, la loro sincerità di dolore e sconforto. Sperando che il prossimo raggio di sole, anche se intravvisto più o meno di sfuggita fra le lacrime e il sangue, possa portare in dote almeno un po’ di avvenire. E che magari, prima di fare il prossimo acquisto su Internet, lo spettatore si faccia qualche domanda in più.

Marco Romagna

“Sorry We Missed You” (2019)
N/A | UK / France / Belgium
Regista Ken Loach
Sceneggiatori Paul Laverty
Attori principali Kris Hitchen, Debbie Honeywood, Rhys Stone, Katie Proctor
IMDb Rating N/A

Articoli correlati

DIEGO MARADONA (2019), di Asif Kapadia di Marco Romagna
ONCE UPON A TIME... IN HOLLYWOOD (2019), di Quentin Tarantino di Marco Romagna
MATTHIAS ET MAXIME (2019), di Xavier Dolan di Marco Romagna
THE OLD OAK (2023), di Ken Loach di Marco Romagna
A HIDDEN LIFE (2019), di Terrence Malick di Donato D'Elia
LITTLE JOE (2019), di Jessica Hausner di Marco Romagna