23 Febbraio 2019 - e

UNE ROSE OUVERTE / WARDA (2019) di Ghassan Salhab

«Il vostro ordine è costruito sulla sabbia. Già domani la Rivoluzione si ergerà nuovamente ed annuncerà con un suono di squilla: Ero, sono, sarò»
Rosa Luxemburg

Resistere. Come motto costante dell’essere qui, come spazio di aggregazione dell’appartenere a un luogo e a un periodo storico drammatico, come martirio della propria esistenza nella prospettiva di un’altra società. Rosa Luxemburg, dopo aver fondato la Spartakusbund con Karl Liebknecht, nel novembre del 1918 partecipò alla Rivoluzione per poi fondare alla fine dello stesso anno il Partito Comunista di Germania. Nella “Rivolta di gennaio” fu però catturata, torturata, interrogata e poi giustiziata (con lo stesso Liebknecht) dai Freikorps del governo Ebert. La storia è nota, tanto che oggi a Berlino ci si imbatte in una Rosa Luxemburg Platz e in una Rosa Luxemburg Strasse, ed è dedicato a lei anche un ponte sul Landwehrkanal all’interno del parco di Tiergarten. Proprio qui si trova il Rosa Luxemburg Memorial, e proprio da questo ponte i suoi assassini gettarono il suo corpo nel canale della notte del 15 gennaio 1919. Non poteva quindi che partire simbolicamente  proprio da qui anche il viaggio di Ghassan Salhab per provare a raccontare qualcosa di poco conosciuto sulla sua vita: le immagini sono di oggi ed è inverno, la neve e la pioggia cadono su questo ponte che pare dimenticato, il silenzio rasenta l’assoluto, e la scultura con il nome dell’attivista tedesca sembra quasi desolato in questa giornata invernale.
Due anni prima di morire, Rosa Luxemburg fu arrestata dopo uno sciopero, ed è in questo periodo che scrisse il fondamentale Juniusbroschüre (1915) e La Rivoluzione Russa (1918). Di quel tempo sono anche le lettere dalla prigione, proprio quelle lettere che Ghassan Salhab utilizza, nel suo Une rose ouverte / Warda presentato alla Berlinale fra i fiori (o forse sarebbe meglio dire le Rose) all’occhiello del Forum 2019, come strumento per interrogare questa storia così pregna di prospettive e di traiettorie fondamentali del Novecento successivo. Lettere che guardano inaspettatamente alla gioia di esistere come alla bellezza, quadri impressionisti di natura come di bellezza, estemporanei e abbaglianti. Più nascoste sono le riflessioni politiche della Luxemburg, ma si intravvedono le sue considerazioni sulla Grande Guerra come tradimento del Socialismo e i sentimenti drammatici che adombravano il futuro della nuova Germania. La società allora scelse la barbarie, e a lei toccò il sacrificio. A lei toccò quel tornare a dialogare con la crudeltà della natura, più vera e intensa rispetto quella riservata agli esseri umani.

La Luxemburg pare sorridere alla vita, nelle sue parole, proprio nell’oscurità di quella lotta continua e impossibile che aveva portato lei (e i suoi compagni) a una continua clandestinità. Nelle lettere, le sue descrizioni di uccelli, fiori, nuvole e colori dimostrano una consapevolezza della bellezza della natura vissuta con tutti i sensi. A queste parole (in tedesco e in arabo) il libanese (nato in Senegal, attivista, documentarista e artista di grande originalità) Salhab associa in modo contrastante immagini della Berlino invernale d’oggi (con riflessioni sulla caduta del Muro, sulle correnti degli anni Novanta, sui simboli di quella città), una lettura di due persone nel centro di Beirut e il footage della resistenza Palestinese di ieri e di oggi (tra le altre ci sono le immagini del godardiano e indispensabile Ici et ailleurs). E poi il materiale d’archivio della Prima Guerra Mondiale e le canzoni di battaglia del movimento operaio, con tracce di Nico, Gerhard Richter, Brecht, Breton, voci, suoni, musica e commenti silenziosi. Un vortice complesso di sensazioni e pensieri, un film di pulsioni e di urgenze, un affresco di lotta.
Nella forma teorica e saggistica del film la polifonia di questi strati compressi di audiovisivo si impone con la forza dell’evocazione di una figura ben determinata ma anche di tutto il suo periodo storico, dalla resistenza nella Germania che fu a quella del Medio Oriente attuale, una piccola odissea sulla condizione umana a contatto con la forma politica più vera e pura. Une rose ouverte è una raccolta di frammenti che si slabbrano e si contagiano continuamente, lasciando al possibile sguardo retrospettivo anche la pulsione dell’oggi, abbandonando la forma narrativa per un respiro più ampio e intimo del dialogo, in rispetto di quel carteggio così straordinario e affascinante. E sono proprio le influenze di Godard e Marker (come sostiene lo stesso Salhab) a farsi sentire nella forma estetico-linguistica di questo film, sentimentale e urticante, terribilmente legato a quella maniera politica di filmare, montare e restituire il (dis)farsi della storia.
«Ora è sparita anche la Rosa rossa. / Dov’è sepolta non si sa. / Siccome disse ai poveri la verità / I ricchi l’hanno spedita nell’aldilà» scriveva Bertold Brecht un secolo fa, proprio come epitaffio della Luxemburg. Una ricerca che non deve essere appiattita sulla prospettiva della Storia, che non deve esser dimenticata come un libro impolverato sullo scaffale della teoria politica che fu, che non deve finire nell’oblio, perché pregna di una sublime esperienza umana di lotta e di consapevolezza al cospetto dei drammi del Novecento. Una lezione di vita, un’utopia oggi ancora più distante, e per questo da perseguire a cuore aperto. «Me ne sto qui distesa, sola, in silenzio, avvolta in queste molteplici e nere lenzuola dell’oscurità, della noia, della prigione invernale – e intanto il mio cuore pulsa di una gioia interiore incomprensibile e sconosciuta, come se andassi camminando nel sole radioso su un prato fiorito. E nel buio sorrido alla vita, quasi fossi a conoscenza di un qualche segreto incanto in grado di sbugiardare ogni cosa triste e malvagia e volgerla in splendore e felicità. E cerco allora il motivo di tanta gioia, ma non ne trovo alcuno e non posso che sorridere di me. Credo che il segreto altro non sia che la vita stessa; la profonda oscurità della notte è bella e soffice come il velluto, a saperci guardare. E anche nello stridere della sabbia umida sotto i passi lenti e pesanti della guardia risuona un canto di vita piccolo e bello, se solo ci si presta orecchio». (estratto da una lettera del dicembre 1917; Rosa Luxemburg scrive a Sonja, moglie di Karl Liebknecht, dal carcere femminile di Breslavia).

Erik Negro, Claudio Casazza

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