Se i Festival cinematografici fossero squadre di calcio, la Berlinale e Cannes sarebbero rispettivamente l’Arsenal di Arsène Wenger, ben 22 anni di fila sulla panchina dei Gunners, e il leggendario Manchester United di sir Alex Ferguson, che decise di ritirarsi nel 2013 dopo aver passato 27 anni consecutivi a guidare i campioni in maglia rossa. Numeri letteralmente impressionanti in un calcio sempre più dominato dai Preziosi, dai Cellino, dagli Zamparini, da chi in genere gli allenatori li fagocita esonerandoli e richiamandoli a piacimento per poi magari esonerarli nuovamente dopo una manciata di giornate recidendo alla base qualsiasi possibile linea di continuità; numeri di poco meno sbalorditivi se traslati sulle kermesse cinematografiche, in cui una stabilità è di certo necessaria perché si possa portare avanti un percorso, perché possa emergere un’idea di cinema e perché si possa creare e portare avanti – nel bene e nel male – una ben precisa identità, ma la consuetudine, un po’ per gli impegni personali e per i limiti d’età dei singoli direttori, un po’ per evitare di fossilizzarsi su un solo sguardo e per cercare di scongiurare stanchezze e mancanze di motivazioni, tende in genere a imporre cambi più frequenti. Come a Venezia, che nei suoi 76 anni di vita ha visto, compresi i cavalli di ritorno, ben ventidue avvicendamenti alla direzione artistica, o come a Locarno, dove il prossimo agosto a tirare il calcio di inizio dell’edizione numero 72 ci sarà Lili Hinstin all’esordio come quattordicesima direttrice. Quattordicesima, appunto, contro gli appena quattro delegati generali che nello stesso numero di anni hanno tenuto e ancora tengono le redini di Cannes (a maggio Thierry Frémaux sarà in carica per la diciannovesima volta consecutiva delegato generale nella storia del Festival, con incarico ricevuto nel 2001 dalle mani di Gilles Jacob che a sua volta lo ricopriva sin dal 1978) e contro i quattro direttori che in sessantanove edizioni compresa questa che sta iniziando si sono avvicendati nei loro (quasi) ventenni berlinesi. Ben oltre un “ciclo”, in quella che giocoforza diventa vera e propria linea del Festival come una creatura a immagine e somiglianza, e che altrettanto inevitabilmente rende il momento dell’addio più traumatico. Si sa da parecchio tempo che l’edizione numero sessantanove sarà la diciottesima e ultima diretta da Dieter Kosslick, così come si sa da mesi, ufficializzato già lo scorso luglio, che dal 2020 e dalla cifra tonda di Berlino70 il suo successore come quinto direttore artistico sarà l’ormai ex locarnese Carlo Chatrian, coadiuvato da Mariette Rissenbeek per la parte amministrativa ed esecutiva. Non c’è quindi da stupirsi più di tanto nel ritrovarsi di fronte a un’edizione che si annuncia di transizione, sulla carta proprio debole ben più che “non irrestitibile”, come un ultimo fuoco di chi parrebbe avere forse esaurito le frecce al suo arco in attesa che subentri il nuovo corso, e con lui tutte le novità e migliorie che saprà portare. Le annate con Larraìn, German jr, Herzog, la Enyedi e Lav Diaz, solo per dire alcuni degli ultimi nomi in competizione per l’Orso nell’era Kosslick, sembrano lontane anni luce, ma del resto nemmeno Wenger e Ferguson hanno potuto vincere proprio tutte le partite. Fino a quando, immancabili quando si è forti, sono tornati i campionati e le coppe in bacheca.
Era il maggio del 2001 quando Dieter Kosslick, nominato dal Ministero della Cultura tedesco, sostituì alla guida della Berlinale Moritz de Hadeln, che a sua volta era stato in carica sin dal ’79 dopo i suoi sei anni a Locarno e prima dei suoi due a Venezia. Un percorso, dall’edizione 2002 alla 2019, lungo diciotto anni, che fra alti e bassi, fra picchi e fasi di stanca, ha portato l’Internationale Filmfestspiele Berlin a crescere, ponendosi come terzo (forse in alcuni anni anche secondo) Festival europeo. Un Festival internazionale eppure profondamente cittadino, fatto di centinaia di film spartiti nelle varie sezioni e di altrettante centinaia di persone in fila per acquistarne i biglietti, perfettamente innestato nel suo tessuto sociale e urbano eppure vetrina mondiale con accreditati da ovunque, attento ai gusti del pubblico mainstream ma al contempo aperto, con le sue correnti indipendenti (in testa ovviamente Forum, ma anche il lavoro di Generation da cui fra animazione e live action folleggiante esce quasi sempre qualcosa di inaspettato o quello di Panorama da sempre attento alle tematiche LGBT), alla ricerca nelle cinematografie e nei linguaggi meno battuti. Ma anche, da sempre, un Festival pachidermico, che pur dividendo con intelligenza i film fra le sezioni in modo da permettere agli accreditati di seguire agevolmente i percorsi più nelle corde ha sempre avuto probabilmente troppi film in ogni sezione ad abbassarne inevitabilmente la qualità media, e un Festival i cui premi, troppo spesso, sono stati dettati da questioni politiche ben più che artistiche, con Panahi che nel 2015 con il suo buono ma non eccelso Taxi Teheran strappò letteralmente l’Orso d’Oro di mano alla rosa composta da Pablo Larraìn con El Club, Alexei German jr con Under electric clouds e Patricio Guzman con il magnifico El botòn de Nacar, o con il per lo meno incomprensibile Orso tributato l’anno scorso, sul vento del metoo, ad Adina Pintilie e al suo impresentabile Touch me not.
La Berlinale di Kosslick ha scoperto e valorizzato talenti, lavorando da sempre fra prime mondiali e prime internazionali per portare il cinema alla gente e sugli schermi di Berlino, nelle sale – tutte grandi, tutte comode, tutte perfettamente attrezzate per schermo e audio – che dal centro nevralgico di Potsdamerplatz si espandono a macchia d’olio su tutto il tessuto della città, dallo Zoo ad Alexanderplatz, dalla vecchia Berlino ovest alla vecchia Berlino Est, passando per i pezzi di Muro e per le linee ancora tracciate a terra su quello che era il suo percorso che ricordano la Storia recente di un Paese e dell’intero scacchiere mondiale. Ed è quindi triste che il suo capolinea sia un’edizione quasi priva di aspettative, in cui fra i film “nuovi” solo Agnès Varda (pur relegata fuori concorso in una competizione ad altissima presenza femminile) e il gruppone fatto da Rita Azavedo Gomes, Nikolaus Geyrhalter, Daniel Hui e Heinz Emigholz (tutti e quattro nel solito Forum) fanno realmente battere il cuore cinefilo. Certo, ci saranno le solite sorprese, e c’è la speranza che per i potenziali e incostanti François Ozon, André Téchiné, Emin Alper e il nostro Claudio Giovannesi, ospitati nel concorso principale, sia arrivato il tempo del film “giusto”. Ma è andando nel passato che la Berlinale 2019 troverà i suoi colpi migliori, con l’omaggio a Charlotte Rampling che riporterà sugli schermi i vari La caduta degli dei, Il portiere di notte, Stardust memories di Allen e Max mon amour di Oshima, e con i classici fra i quali tornerà a illuminare uno schermo l’Ordet dreyeriano, fra i più grandi film di ogni tempo. Un po’ poco, forse. Eppure una transizione, che stagna un po’ in attesa del nuovo corso, era inevitabile. Non resta che il buio della sala, per vedere cosa spunterà fuori. Sperando, ovviamente, che questo pessimismo iniziale sia un colossale abbaglio. E consci che essere a Berlino, in una delle città più vivibili e libere del mondo, è sempre bellissimo, indipendentemente da cosa passi sugli schermi.
Marco Romagna