31 Gennaio 2019 -

TUTTO L’ORO CHE C’È (2019)
di Andrea Caccia

Nasce da due sorgenti svizzere il fiume Ticino, sugli oltre duemila metri della Novena e del San Gottardo, e da lì scende, pulsa, si ingrossa, si placa, si depura entrando e uscendo dal Lago Maggiore e poi prosegue la sua corsa accarezzando il Nord-Ovest d’Italia, fino a tuffarsi nel Po a pochi passi da Pavia. Quasi duecentocinquanta chilometri di acque che scorrono dolci nella loro piccola e personale foresta, dalle valli del Canton Ticino al Piemonte e alla Lombardia, come un’arteria a unire le terre di un unico e multiforme bacino, simbolo di vita, di comunione, di irreversibilità di un percorso lento e inarrestabile. Quasi duecentocinquanta chilometri di luoghi, di ecosistemi, di fauna, e di uomini che sulle rive del fiume vivono il proprio quotidiano incontro e confronto con la natura. Tutti alla ricerca di qualcosa, e proprio per questo destinati a trovare se stessi. Chi esplora l’ignoto e le sorprese di un territorio che gli pare incantato, chi si aggira silenzioso per cercare di stanare la propria pennuta cena, chi scandaglia i luoghi alla ricerca di altri fuggitivi esseri umani, chi si espone nudo al sole cercando l’idillio con la natura o forse la carne di altri corpi, e chi, con la flemma della senilità, setaccia pazientemente la sabbia alla ricerca di Tutto l’oro che c’è. Proprio come ha fatto Andrea Caccia, documentarista novarese di esperienza ormai ventennale, che sullo scorrere del Ticino ha impostato una ricerca di chissà quanti mesi e oltre 150 ore di materiale. Una mappatura piavoliana, elegiaca, tutta d’osservazione e di sguardo, tutta d’attese e di (non) incontri, tutta di vagare errabondi e di solitudini, in cui ogni essere vivente è allo stesso modo protagonista e parte dello stesso grande affresco mobile chiamato habitat. Uomini e cinghiali, libellule e pettirossi, felci e scarafaggi, mucche e processionarie, ragni e licheni, rane e cormorani, pini e cigni, pesci e lumache, mammiferi e insetti, tasselli d’amore e di morte nell’impenetrabile e quotidiano mosaico del ciclo della vita. Un mosaico di luoghi e cartelli, di traiettorie e di provvisorietà, di osservazioni e di vite che vanno avanti, a volte si intrecciano, e prima o poi finiscono, come narrazioni appena accennate e lasciate lì, nell’ignoto, nella suggestione, nella mancanza, nell’eterno e inesorabile scorrere del Ticino, che poi è lo scorrere di ogni esistenza.

Tutto l’oro che c’è è un instancabile vagare per i luoghi alla ricerca di una traccia, di uno sprazzo, di un momento, di un lirico idillio, di un personale incanto. È un viaggio estetico ed estatico nella bellezza che nell’osservazione e nella dilatazione cerca la poesia della vita, in cui non conta chiedersi che cosa sia realmente figlio dell’attesa e del caso e che cosa possa essere stato rimesso in scena come un simbolo, conta solo immergersi, conta solo perdersi nelle placide acque del fiume e nello sguardo puro di Andrea Caccia, conta solo lasciarsi dolcemente accompagnare nelle terre del Ticino e nella sua naturale mescolanza di uomini, piante e animali. Fra ambiente naturale e interventi umani, ciottoli e ombrelloni, setacci e tavolini, girini e capanne ormai abbandonate, nel cristallizzarsi dello scorrere del tempo e nella natura che si riprende i suoi spazi. Conta solo guardare gli alberi che si perdono lassù, nell’infinito, e con loro cercare lo stesso infinito, leopardiano, fatto di interminati spazi, di sovrumani silenzi, di profondissima quiete, dell’abbraccio infinito fra dettagli e campi lunghi, fra osservazione e astrazione, fra comunione naturale e pace. Conta solo entrare a far parte dello stesso immaginario geografico e poetico, delle stesse suggestioni estetiche, delle stesse allusioni ad amore e morte fra campo e fuori campo, fra sessualità e cadute, fra genitali e lumache, fra preservativi lasciati a terra e canne dei fucili. Fra rituali d’accoppiamento e spari, in un costante guardarsi e corteggiarsi, esibirsi e annusarsi, sognarsi e appartenersi di predatori e prede. Magari attraverso il cane da caccia, lesto a riportare il fagiano, o in divisa da Carabiniere, forse proprio alla ricerca di quel bracconiere che ha premuto il grilletto. Non si incontreranno mai, cacciatore e poliziotto, così come non si incontrano i cinque personaggi sui quali, più che sugli altri, Caccia decide di focalizzare la sua simbolica mappatura. Ma tutti incontreranno il regista, e attraverso il suo occhio meccanico condivideranno la loro ricerca, la loro essenza, il loro sguardo, il loro personalissimo oro. La loro appartenenza a una terra e a un ecosistema, a una piccola e sentimentale porzione di mondo, così diversa e così uguale a tutte le altre, così pacifica nella sua natura, così distante dalle industriali torri di fumo che sorgono invisibili ai suoi fianchi, così attraente e così inquietante nella sua solitudine, nel suo labirintico divenire, nel suo vivere al di fuori del mondo, quasi parallela, separata, eppure così profondamente significativa.

Andrea Caccia procede con la stessa pazienza con cui l’anziano cercatore d’oro scandaglia il territorio alla ricerca di una pepita. Filma il sole, il vento, le cicale, gli animali, il brulicare, l’acqua che scorre, alla ricerca di quell’inquadratura che trasformi il fisico in metafisico, alla ricerca di quel suono avvolgente dal quale lasciarsi trasportare come musica della natura, alla ricerca di un eterno e provvisorio divenire nel quale fermarsi, perdersi e, forse, ritrovarsi. Dilatando (forse fin troppo, ma non è questo il punto) i tempi, rilassando il ritmo, incrociando i piccoli frammenti come se fosse solo l’acqua del fiume il vero occhio, il vero testimone, il vero filmmaker, e come se Tutto l’oro che c’è, presentato nella sezione Signatures del 48mo International Film Festival di Rotterdam, fosse un solo pomeriggio, tempo-non tempo che tenta di trasformare un luogo in un non-luogo unione (o forse negazione) di tutti i luoghi, di tutti gli esseri viventi, di tutte le possibili situazioni che si sviluppano lontane e quasi opposte dai ritmi folli e frenetici delle città, di tutti i possibili sogni di chi (si) cerca e di chi (si) trova. La sua operazione, realizzata in collaborazione con il secondo operatore di macchina Massimo Schiavon e prodotta, fra gli altri, da Stefano Savona, è una polifonica circumnavigazione che proprio come la barca di cui si vede solo la punta procede sul leggero e quasi impercettibile incresparsi delle acque fluviali, da una parte all’altra, dalla sorgente all’immissione nel Po, attraverso monti e valli, regioni e scorci, respiri e contemplazioni, naturalismo e antropologia, sospensioni e poetica. Attraverso il librarsi in volo delle libellule, l’amarsi degli animali, le attese e i desideri degli uomini. Caccia tesse nelle immagini una ben precisa potenza estetica e poetica, lasciando che siano le sfocature fra i fili d’erba a suggestionare e a prendere per mano, lasciando che siano i soli quadri, privi o quasi di parole, a suggerire una propria esoterica fisicità, a suggerire l’andare avanti sempre e comunque, a suggerire il senso della vita. Senza una vera e propria narrazione riconoscibile, ma con un ben preciso lavoro – narrativo – sul linguaggio, sull’estetica, sulla costruzione di un’immagine. Come la “neve” di petali e polline che vola fra le felci, come un vecchio ristorante che è punto di riferimento un po’ per tutti, come una pietra miliare, come un ago di pino, come l’alternarsi di sole e ombre mentre i rami sembrano quasi volare via. È l’apologo dell’esistenza, dello scorrere, di quella sospensione temporanea e cangiante chiamata vita. Ed è sempre più raro ritrovarsi di fronte a uno sguardo italiano così personale, così preciso, così inaspettato, così profondo, così poetico. Così prezioso.

Marco Romagna

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