Più che un “vento divino”, Divine wind è un vento di tempesta, di morte, di insanabili conflitti. Un vento di ascetismo e di dubbi, di piccoli cedimenti e di incubi, di fondamentalismi e di apostasie, che spira là dove la religione non è già più religione, ma è diventata ossessione, guerra, odio, terrorismo, inumanità. Un enorme travisamento, che fa leva sulla (buona) Fede degli uomini e delle donne per trovare i soldati di inconsapevoli battaglie politiche ed economiche, e che quotidianamente, sempre più, umilia l’Islam nel tradimento dei suoi più basici principi di uguaglianza e fraternità. È un vento di granitiche e ferali certezze che scricchiolano, Divine wind, è un vento di ricordi tenuti nascosti come ferite mai del tutto cicatrizzate, di spiragli d’umana fragilità che quasi sibillini si fanno largo nell’intransigenza della radicalizzazione. È un vento che trascina nel suo vorticare solo vittime, delle circostanze e di loro stesse, pericolosamente affacciate sul crinale fra bene e male, private della possibilità di decidere fra convinzione e inganno, fra (auto)martirizzazione e strage, fra risolutezza e crisi di coscienza poco prima dell’attacco, «e ancora hanno il coraggio di professarsi musulmani».
Presentato nella sezione Voices del 48mo Festival di Rotterdam a pochi mesi dalla prima mondiale di Toronto, l’ultimo lavoro del veterano algerino Merzak Allouache è un detour umanissimo e dolente, al contempo abbacinante nel suo minimale bianco e nero digitale e oscuro nei suoi ipnotici contrasti notturni, come i meandri di due anime lanciate verso la deriva. Degli echi politici del Califfato islamico, lasciati volutamente nel mistero insondabile del fuori campo da cui arrivano gli ordini di chi manda a morte senza mai morire e nella sostanziale mancanza di reali motivazioni dei suoi protagonisti, Divine wind preferisce estrapolare i drammi esistenziali e sociali, le titubanze e le (in)consapevoli contraddizioni, ribaltando lo sguardo di ogni musulmano sull’ISIS nella messa in scena, fra forsennati primi piani e una straordinaria espressività degli sguardi, del vacillare di un punto di vista interno, del ripensamento, della frattura, del dramma. Quello del giovane e passivo Amine, poco più di vent’anni e la paura di morire che inesorabile corre al suo fianco mentre si allena, preparandosi per una guerra che vuole combattere ma per cui non è pronto a morire, in quel deserto algerino che al telefono con il padre chiama ancora precauzionalmente «Barcellona», e quello di Nour, che di anni ne ha solo pochi di più ed è almeno in apparenza molto più integralista e “pronta” di lui, donna dura e accecata dall’ideologia che tratta tutti come fossero i suoi cani e comunica senza appello gli ordini ricevuti, che malvede la televisione e i cellulari come se fossero simboli del suo immaginario nemico e che si aggira velata e guantata come una spietata dark lady, ma che al di sotto del suo hijab conserva ancora tutta la sua femminilità, al di sotto della sua corazza di Fede e disciplina incattivite dalla vita conserva ancora in borsa il passaporto francese e la foto bruciata di una sorella già «martire di Allah». Quando vede un paio di scarpette perlate Nour vacilla per un attimo, in un sorriso destinato a tornare espressione accigliata; a volte si ritrova a danzare da sola fra le dune con un partner immaginario o più probabilmente strappatole via dal duro passato, e nel cuore della notte, quando è più esposta e meno guardinga, viene ancora visitata dagli incubi di sempre e dagli insperati sprazzi di sensibilità di chi, ben più che la necessità di offrirsi a Amine per trattenerlo nella missione, ha (ancora, e forse soprattutto) un forsennato bisogno di tenerezza.
Amine e Nour non si conoscono, al momento del loro primo incontro, ma saranno destinati, nell’attesa della missione (suicida) e delle armi, a convivere fra le cure, il cibo, il thé e le telefonate di svolta dell’anziana El Hadja, anima a metà fra i due il cui sacrificio sarà l’unica possibile via verso la loro reale natura. Finiranno per confrontarsi, studiarsi, e inevitabilmente sentire un legame nascere e crescere. Un legame fatto di incertezze e di dolore, di lacrime e di ansiolitici nell’attesa dell’ordine liberatorio eppur fatale, di escursioni nel deserto e di dispetti per ristabilire le gerarchie, di impotenti grida nella sabbia e di visioni tragicamente approssimate del mondo, di atroci convinzioni e di atti efferati, ma anche di ambigue attrazioni negate e poi di abbracci proibiti, di carezze e di sguardi, di labbra che si desiderano, solo per un attimo si sfiorano e poi inevitabilmente si perdono. Come un legame d’amore impossibile che sale inaspettato a tentare di crepare la superficie dell’odio e della morte, fugace come un bacio, devastante come un detonatore. Del resto, il cinema di Merzak Allouache è sempre stato, sia nel profondo realismo della finzione sia nei – più rari – documentari, figlio di una ben precisa urgenza. Un’urgenza che inevitabilmente, seguendo il passare del tempo e il corso degli eventi, si è spostata dall’iniquità alienante della società algerina che metteva in scena già nella seconda metà degli anni Settanta nell’esordio Omar Gatlato a uno sguardo sempre più panarabo e sempre più allarmato sulla radicalizzazione, che dalle battaglie di Bab Ed Oued City di metà anni Novanta, dopo essere passato per le Torri Gemelle e per le Primavere Arabe deve ora fare i conti con il Califfato dell’ISIS, con i suoi proselitismi che uccidono per uccidere, con i suoi attentati europei e con l’ondata islamofoba mondiale che, come un tragico effetto domino, ne è conseguita. L’urgenza di Divine wind non è tanto quella di dichiarare la propria esplicita opposizione e condanna ai fondamentalismi, dopo un’intera carriera non ce n’è nemmeno più bisogno, e come anticipato non è nemmeno quella di interrogarsi più di tanto sulla politica che sta dietro alle cellule di reclutamento, volutamente lasciata nella stessa nebbia attraverso cui i protagonisti vedono l’intera società «apostata» da attaccare. L’obiettivo di Allouache è quello, lontano da ogni facile intento bacchettone, di cercare di capire l’anima dell’integralista, che cosa lo spinga e che cosa lo trattenga, quali siano i suoi dubbi e i suoi traumi, quali siano le sue confusioni e le sue contraddizioni, sondando l’irrazionale alla ricerca di un ultimo barlume di umanità che emerga dal suo cieco, rancoroso e radicale bigottismo.
Divine wind sono gli occhi di Nour che si velano solo per un attimo di lacrime e poi si serrano di nuovo in uno sguardo duro e contrito, Divine wind sono i singhiozzi di Amin alla disperata ricerca di una via d’uscita, Divine wind sono gli ordini di morte e i giubbotti esplosivi che giungono per farsi saltare nel vicino pozzo petrolifero, ma soprattutto Divine wind è il progressivo deterioramento psicologico, è quel dubbio che si insinua, è quella crisi di coscienza, è quel barlume di lucidità nel capire che si ha già ucciso e ci si sta per sacrificare nel nome di una guerra sbagliata, ma ormai è forse troppo tardi per ascoltarlo. Divine wind è un guardarsi a vicenda mentre ci si dimena nel sonno fino all’inevitabile progressivo aprirsi, Divine wind è il costante voler dimostrare la propria radicale Fede e la propria rigorosa disciplina fra preghiere e (auto)punizioni, fino a quando il cuore e la testa non potranno che chiedere solo di fermarsi, di abbracciarsi, di appartenersi per annullare le fragilità e le paure, almeno per una notte, o magari per due. Nel sogno, magari, di riuscire a fuggire insieme, come novelli Romeo e Giulietta che dalla condanna a morte riescono a ribellarsi, a vivere, ad amare. O forse a ritrovarsi sulla sabbia, per l’ultima volta discordi, ma entrambi consci che ormai l’unico posto dove potranno andare insieme è il paradiso. E che l’unico modo per potere ancora sperare di andarci è quello di premere il pulsante del detonatore finché si è da soli, prima di arrivare all’obiettivo. Salvando per lo meno le vite di chi può ancora essere salvato.
Marco Romagna