8 Gennaio 2019 -

UNBREAKABLE (2000)
di M. Night Shyamalan

Prima di trattare Unbreakable e i motivi per cui è un film di cui ha ancora senso parlare oggi (anche a causa della reinterpretazione che il suo stesso regista gli sta dando nel continuo della sua carriera), bisogna fare una piccola premessa e un’introduzione. La premessa vuole che si dica che questa recensione di Unbreakable e la prossima di Split sono state scritte poco prima di una visione di Glass, e che quindi vivono in attesa di una visione d’insieme al momento incompleta. L’introduzione invece vuole separarsi dal discorso più grande per concentrarci brevemente su una cosa di Unbreakable che troppo poco spesso viene fatta notare: i suoi titoli di testa. Dopo un’introduzione ‘in medias res’ che ci introduce al passato dell’Uomo di Vetro, Elijah Price (Samuel L. Jackson), e alla tragica condizione fisica fragile che lo affliggerà per tutta la vita, la macchina da presa decide di concentrarsi su un personaggio dall’altra parte dello spettro, David Dunn, un signor nessuno col volto di Bruce Willis che non sa ancora di essere un supereroe. I titoli di testa scorrono su un piano sequenza minimale e raffinato, che insieme alla parte finale di The Visit probabilmente costituisce l’apice formale di Manoj Night Shyamalan, un regista troppo spesso accusato eccessivamente per certe sue scelte di sceneggiatura e troppo poco valutato invece per le doti registiche indubitabili che dimostra sin dagli esordi. Dunn è schiacciato dietro i sedili, si nasconde come nasconde sé stesso e la sua insoddisfazione. Nasconde la sua fede per provarci con una ragazza ma fallisce miseramente. Bruce Willis, volto duro e iconico del cinema d’azione, non è mai stato così psicologicamente fragile, e Shyamalan lo dimostra solo e unicamente con un fluido e lentissimo movimento di macchina, un esempio elegante, intensissimo e puramente americano di regia asservita alla costruzione di un personaggio. Non ci serve sapere più niente su Dunn, questo è quello che ci serve ricordare, perché è qui, o dopo poco, che avviene l’incidente ferroviario a cui sopravvive solo lui, il punto di svolta dopo il quale questo Dunn deve necessariamente cambiare, evolversi. Diventare un eroe.
David è un eroe americano, Elijah una classica nemesi, ma più sottile, più strisciante. La sua manifestazione è progressiva, e all’inizio la sua aura tenebrosa sembra giustificata nel discorso. Già prima di Hansel e Gretel in The Visit, del Boogeyman di Split e di altri, il cinema favolistico di Shyamalan, che funziona per opposizioni ying/yang semplicissime come quelle dei Pokemon e della mitologia greca (v. l’acqua contro gli alieni in Signs), aveva introdotto un antagonista parabolico e senza tempo, uno statuario pianificatore à la Barbablù. E in tutti questi casi l’origine della costruzione metafisica dell’orrore è eradicata all’interno di una logica invece fisica, una malattia, mentale o somatica o entrambe, che si tramuta in un qualcosa che appare inspiegabile. Nel nostro mondo razionalista e materico, Shyamalan rappresenta un’interessantissima resistenza rispetto al marasma di narrativa pseudoscientifica e tecnico-economica che conquista spesso il mondo hollywoodiano (v. i film di David O. Russell da una parte, quelli di Nolan dall’altra). È uno storyteller, che in Unbreakable espande il ‘mythos’ regalando a esso un Eracle improbabile.

Il film, che corrisponde a una delle tre vere opere cardine del suo cinema insieme a The Village e The Visit, può essere analizzato in vari modi: ci potremmo concentrare su come la regia ricalchi gli stilemi del cinema classico rifacendosi soprattutto a Hitchcock, oppure su come la costruzione narrativa di Shyamalan sia sempre accorta ad anticipare sin dall’inizio il tradizionale twist ending con una serie di indizi (su tutti, Elijah che appare specchiato nei vetri della TV e delle tavole esposte nella sua galleria, o il suo bastone di vetro in frantumi nella stazione della metropolitana) che solo a una seconda visione si rivelano come tali, o ancora sul discorso teorico che il film pone parlando dei fumetti. Ma è impossibile scindere le due cose. Attraverso Elijah, il mondo dei comics è posto come un mondo culturale, un altro, nuovo mito, che costruisce le icone del mondo moderno. Attraverso l’impostazione classica del film, la regia di Shyamalan rimpiazza il mito con uno pseudo-realistico, psicologicamente complesso percorso dell’eroe, percorso che viene traviato, concludendo la storia in maniera affrettata alla fine del prologo appena è nata l’epica, con una didascalia giornalistica che riporta drammaticamente Dunn nelle tenebre e il mito nel razionalismo del nostro mondo. Dell’ennesimo meccanismo taoista di opposti che si attraggono e si respingono, i veri drammi che l’eroe deve sconfiggere sono quelli personali, i traumi, le discussioni familiari, la necessità di gestire un potere così immenso. L’estro da giustiziere, braccio della bontà, investigatore privato che diventa l’eroe indistruttibile del titolo, esiste ma corrisponde a un uomo sofferente nel mezzo di una ricerca interiore frustrante, una lotta con le proprie responsabilità. Con la sua forza scoperta quasi per caso e con enorme sorpresa nella cantina di casa, con la sua paura per l’acqua come una personale Kryptonite, e con la consapevolezza che le origini del suo percorso sono stati un trauma, una bugia, il misfatto terroristico dell’uomo di vetro e successivamente le sue consulenze. La maschera scompare e la giustizia vince, ma di nuovo grazie a meccanismi concreti, giudiziari, fattuali. È il funerale implicito della nuova iconografia.
David Dunn è la chiave per la destrutturazione di tutto il cinema supereroistico con la completa e volontaria anti-spettacolarità delle  sue azioni, quelle di un (anti/super)eroe della realtà di ogni giorno, padre e marito (ovviamente di Philadelphia, come sempre nel cinema di Shyamalan) con le sue gioie e con i suoi rimpianti, ex sportivo che ha scelto l’amore e che ora si trova di fronte a una (non) scelta più grande: la consapevolezza di un nuovo ruolo. Nell’epoca corrente in cui l’MCU ha conquistato i canoni dei blockbuster con una logica di narrazione causa-effetto a metà tra il cinema delle saghe e la serialità pop, la trilogia di Shyamalan è una proposta autoriale alternativa, in cui alla tesi di Unbreakable non possono esserci risposte più evidenti dell’antitesi di Split e della futura sintesi di Glass. Anche l’uomo comune, il sofferente rapito dalla follia, in mezzo a un sentiero di ferite, diventa fulcro del franchise. David Dunn finalmente può andare oltre quei sedili.

Nicola Settis

“Unbreakable” (2000)
106 min | Drama, Mystery, Sci-Fi, Thriller | USA
Regista M. Night Shyamalan
Sceneggiatori M. Night Shyamalan
Attori principali Bruce Willis, Samuel L. Jackson, Robin Wright, Spencer Treat Clark
IMDb Rating 7.3

Articoli correlati

THE BRUTALIST (2024), di Brady Corbet di Marco Romagna
BUSSANO ALLA PORTA (2023), di M. Night Shyamalan di Marco Romagna
GLASS (2019), di M. Night Shyamalan di Marco Romagna
MEGALOPOLIS (2024), di Francis Ford Coppola di Donato D'Elia
QUEER (2024), di Luca Guadagnino di Marco Romagna
BABY INVASION (2024), di Harmony Korine di Nicola Settis