Complementare e umanamente legatissimo agli ultimi lavori di Tonino De Bernardi, illumina gli schermi di Rotterdam 2018 O termómetro de Galileu, video-diario di Teresa Villaverde che si immerge in un dolce viaggio nei luoghi di Tonino e Mariella, nel loro quotidiano, nella loro casa, nella loro umanità distante e creativa. Siamo a Casalborgone (Torino), il luogo dell’Elettra (1987) di Tonino, al cospetto di un universo quasi parallelo in cui la vita ha altri tempi e spazi. Dolcemente, di fronte alla macchina da presa della regista portoghese, prende forma un dialogo tra due autori – e artisti – che trova il suo esercizio nell’affiancare movimenti di letteratura e cinema (la ricerca di se stessi, rispettivamente, all’interno e all’esterno del sé medesimo), come l’esperienza unica di un’avanguardia altra e antica – e allo stesso tempo ancora modernissima – che intendeva la pratica del fare film come approccio artigianale e personale, come momento libero e puro di percezione. La Villaverde si trova così con il suo taccuino per immagini che giustappone scrittura e intimità, messa in scena e riflessioni, circolarità del passato e del futuro attraverso il presente. Come la VHS da cui compare proprio Elettra, l’esperienza di quel set e di quell’avventura produttiva assolutamente folle, la rilettura di quei momenti ormai apparentemente impossibili da attraversare un’altra volta. In una delle scene di apertura, da un vecchio televisore spento appaiono queste immagini quasi appartenenti a un’altra dimensione; il vortice meta-cinematografico è l’essenza di questo lavoro, e forse l’essenza stessa di un cinema che non può prescindere dal guardare se stesso per poter trovare nuove coordinate, come se ogni sguardo fosse provvisoriamente il controcampo del precedente, anche se di mezzo ci sono giusto trent’anni.
La casa di Tonino e Mariella è uno scrigno della durata, un tempio in cui sono le stesse immagini a racchiudere altre immagini. Dai vecchi album fotografici agli apparecchi con tubo catodico, sono i frammenti a definire e a raccontarci qualcosa che non appartiene più al nostro reale, come la vetta del Monviso che si può solo intuire attraverso le nubi, ma che il nostro sguardo esclude del tutto. Sarà il flusso degli elementi, delle parole e della vita stessa a combattere contro l’oblio, restituendoci una nuova grammatica dialettica che dai puri esperimenti underground giunge al cinema di Tonino attuale, più mediato e riflessivo, ma sempre così fresco e vibrante. I ricordi di ieri, non solo quelli dei film, passano anche attraverso Ginsberg e Pasolini, drammatiche esperienze familiari e quella continua ricerca del mito che affianca eroi e sconfitti, oggetti e rituali, tradizione e sperimentazione. In questo mondo la Villaverde pare muoversi in punta di piedi, non per timore reverenziale ma per preservazione di questo piccolo e splendido ecosistema umano fragilissimo, in uno splendido lavoro di condensazione e di dettagli limpidi e minimali, un mosaico che in un centinaio di minuti restituisce l’esperienza di una visione della vita come delle cose, e in cui la macchina da presa spesso non trova nemmeno la sua posizione perché l’importante è il resto, quello che va registrato e colto nel suo nascere e fiorire. Ogni dialogo, ogni sguardo, ogni momento della famiglia è unico e irripetibile, avulso dall’essere interno ad un set quanto mai improbabile e incerto. Tutto quindi potrebbe anche essere metafora e sineddoche, più parti che descrivono il tutto senza mai scomodarlo o attraversarlo: quasi una questione di sensibilità, prima ancora che di sguardo.
Appare il termometro di Galileo – sperimentale marchingegno dell’inventore toscano in cui la temperatura è calcolata attraverso ampolle contenti alcool, che la Villaverde “usa” come titolo assai affascinante del film – nella casa di Tonino a Mariella, che pare quasi misurare il tempo di quell’estate scorsa che Teresa ha passato da loro, il senso dell’affrontare la vita da una prospettiva diversa, l’ingegno con cui superare gli ostacoli e reinventarsi (in quella casa dove si stabilì il Living Teather ora c’è la nonna che insegna Terenzio ai nipotini, c’è un’anima hazara che racconta il suo dramma, c’è una contadina che porta le uova di una volta…). O termómetro de Galileu è un film aperto su uno spazio aperto, spontaneo e apparente, originalissimo esperimento solo all’apparenza formale e saggistico di una delle più straordinarie autrici contemporanee pronta ancora una volta a reinventarsi per raccontare l’ammirazione al cospetto di un amico. Ed è proprio nei momenti in cui ci sono i due autori vicini alla camera che il film si spinge verso i crinali a fianco dei baratri più lirici e profondi – il suicidio del nonno, il senso dell’arte nel mondo contemporaneo, le visioni eroiche del mito come della tragedia. Pare essere la realtà, il destino, il caso (come il caos) ad attraversare continuamente il film e a renderlo così urgente e pulsante, mai scontato e pieno di piccole derive continue, deragliamenti, visioni. Si gioca a recitare la vita, si conversa e si guarda, quasi sempre attorno a un tavolo, di giorno come di notte. La telecamera è sempre lì, accesa e quasi automatica, senza quelle mediazioni e quella ricostruzione che vedrà solo il montaggio (minimo e mai forzato) dare un ordine a quel piccolo universo. Ma la camera a volte è anche giusto che sia spenta; l’ultima straordinaria inquadratura – in cui appare anche la stessa Villaverde – vede prima Tonino e poi Mariella chiudere la registrazione, e quindi il film. Guardano in macchina quasi inconsciamente, diventano parte di quel dispositivo atto a creare un altro momento che «nel mondo non c’è ancora». Un momento d’affetto, un racconto che prima di tutto è oggetto d’amore tra l’istinto ribelle di Tonino, la praticità poetica di Mariella e lo sguardo dolcissimo di Teresa.
Erik Negro