Tonino de Bernardi e la sua continua urgenza di tornare a lavorare sull’avanguardia, attraverso una trasfigurazione dall’esigenza di essere quella stessa urgenza per potersi così liberare dalla sua storicizzazione. Questa volta parte da Euripide, da una delle sue seminali tragedie sul potere, par galleggiare fino all’incomprensibile tremendo dell’oggi, spesso specchio e condensatore dei dolori che da sempre trafiggono l’umanità. Ifigenia è metafora, vittima del potere (di ogni potere possibile) che nel nostro presente assume nuove forme e derive, guardando a cosa oggi è il Mediterraneo e alle storie che esso può raccontare (o celare per sempre). Ifigenia oggi è migrante, guarda alla terra promessa senza sicurezza alcuna di poterla raggiungere; vive su barche sconosciute, vestita con giubbotti di salvataggio, sperando di leggere solidarietà sui volti di chi utopisticamente potrà incontrare al suo sbarco. Non è più la guerra di Troia a spaventare, ma i traumi di un altro conflitto, senza territorio, senza prigionieri, senza speranza. Perché spesso la disumanizzazione ha distrutto il contro-campo di ogni guerra possibile, elidendo la solidarietà che donne e uomini ritrovavano sull’orlo del disastro. I drammi del capitalismo, del post-coloniale e della discriminazione sono sulle spalle (nelle parole come negli occhi) della nostra moderna Ifigenia in Aulide, che brilla sugli schermi di Rotterdam nella sua disperata ricerca di un futuro. Un qualcosa che non possa appartenere unicamente a lei, ma di tutti e per tutti. La speranza allora risiede nella comprensione, della storia e della tragedia, ma soprattutto dell’umanità che ogni anima porta nel bagaglio del suo viaggio infinito, da provincie distanti e senza frontiere. Come distopie di confini immaginari.
«Il testo di Sofocle recitato da non attori con marcato accento piemontese potrebbe far pensare a Straub. Ma tutt’altra è la vena poetica di Tonino, anche se con Straub condivide l’amore per un cinema “ecologico”. Siamo piuttosto dalle parti di Garrel: per la dolcezza dello sguardo sugli uomini, sulle donne, sulla natura, per la paziente attenzione alla realtà, che di solito il cinema ha troppa fretta di filmare. Sulle colline dove vive, Tonino ha il tempo di incantarsi e di dare voce e corpo al suo incantamento». Questo scriveva Adriano Aprà su Elettra (1987), altra incursione seminale di De Bernardi attorno alla tragedia greca, al suo continuo spostamento – allora tra Torino e la sua Casalborgione – deterritorializzato e nuovamente attualizzato su altre urgenze. Qui siamo in Grecia (in Eubea, nell’odierna Amarynthos che si trova proprio di fronte all’antica Aulide), passeggiando attraverso abitanti e amici splendidamente a contatto con il testo di Euripide, vissuto nella sua vorticosa e totalizzante umanità senza filtri. La narrazione è intarsiata e riflette l’odierna crisi greca (quasi la stessa visione godardiana di Film-Socialisme) guardando la gente al mercato, durante il dì di festa o nella sua vita rurale. Si recita con il libro in mano, guardando in camera, interpretando ogni singolo passo come fosse un frammento rivisto all’oggi. Un’osservazione più che mai materica e lucidissima, che ci porta anche in Francia (Cannes e la frontiera “migrante” militarizzata), in una fredda Torino attraversata da una strada all’altra, e poi sulle acque del nostro mare chiuso che nasconde, sotto le sue onde, infinite tragedie di questa contemporaneità che dell’assurdo comprende solo il dramma. Giocando ancora al cinema, sorprendendosi di come la messa in scena sia semplicemente esser parte del set del mondo. Mentre gli sguardi in macchina tradiscono emozioni, essere altro per ritrovare se stessi, e così leggere e raccontare il reale per come si svela nella sua semplicità.
De Bernardi torna – in questo film prodotto da se stesso per Lontane Province in collaborazione con FuoriOrario/RaiTre (e dedicato a enrico ghezzi) – alla (sua) avanguardia, realizzando però un’opera più diretta e condensata rispetto ai suoi ultimi detour familiari, grazie a un montaggio – con il fondamentale contributo di Maicol Casale – serrato nella sua costruzione più definita. La rilettura del tessuto tragico diventa spazio d’esercizio dell’urgenza – basti come esempio la forma, quasi installativa, del viaggio dei giubbotti di salvataggio che aggirano i confini d’Europa – riflettendo l’organicità del quotidiano (conversazioni per strada e stralci di giornale, la contemporaneità che squarcia la narrazione del classico) reiventandola costantemente attraverso un cinema più che mai ridotto alle sue pulsioni più sintattiche e primordiali. Proprio in questo contesto si inseriscono le dissertazioni – al limite del campo di inquadratura – di talk-show artefatti e telegiornali nostrani, quasi come flusso di fondo di informazioni che ci attraversa orwellianamente nelle giornate. La decostruzione di tutti questi elementi, e la loro continua e liberissima riscrittura, tornano irrimediabilmente all’Elettra, alle possibilità davvero innovative di ripensare ad un cinema diverso e slegato dalle – spesso davvero futili – velleità di un’avanguardia accademica, programmata e sempre più inflazionata. Una pratica di cinema che mai disdegna l’aspetto ludico e creativo, l’amicizia e gli affetti – la moglie Mariella assume, come sempre, un ruolo chiave – che diventa reportage documentale e ritratto antropologico di Amarynthos, in cui gli abitanti davanti alla telecamera rivivono la loro personale tragedia, la loro unica Odissea che oltrepassa i tempi e la storia. Sarà l’umanità stessa a essere in scena e a rendere conto di una realtà complessa e sfacettata – nella sua rivalsa dell’essere oramai ridotta ai minimi termini, metafora stessa della caduta degli dei ellenici -, probabilmente l’unica vera protagonista di questa tragedia contemporanea; un reale costantemente in fuga sulle tracce delle migrazioni che dalla notte dei tempi hanno scritto le pagine più profonde della nostra civiltà, e che ora il dramma della Storia (come della politica) attuale discriminano nel vuoto delle coscienze. In fondo come Ifigenia in Euripide, che mostra la propria volontà e comprensione nella disperazione di quella Grecia, questo film è fondamentale per comprendere la nostra ancora fragile possibilità di redenzione in questi giorni in cui il dramma è quotidianità. Una visione utopica e celestiale, nel nero di questi tempi.
Erik Negro