Il cinema spesso ci racconta il mondo, e ha la facoltà, forse unica, di ricordarci anche di frammenti scomparsi. Film cardine dello splendido Focus del DocLisboa’18 sugli spazi (e sui tempi) dell’Eufrate tutto, il documento di Kassem Hawal Al Awhar, in titolo internazionale The Marshes, è un altro tassello fondamentale e troppo spesso dimenticato che riemerge dalle nebbie della Storia. Siamo sul confine tra Iraq e Iran a metà anni Settanta, in un luogo che ha fermato i suoi giorni alla ritualità del passato, alle tradizioni appartenute all’alba della civiltà, alla Mesopotamia culla di tutto ciò che siamo (e che abbiamo espresso) nei millenni. Hawal segue gli abitanti di queste paludi quasi mistiche, li abbraccia idealmente in una vita di dignitosissima povertà, in una durata alterata che lascia spesso spazio a semplici ma profondissime riflessioni sull’essere, sull’appartenere a questo pianeta. Mancano spesso le principali norme sanitarie, i pochi soldi ottenuti dalle coltivazioni – soprattuto di zucchero e papiro, come si vedrà nelle lavorazioni – vengono destinati ai figli con il sogno che possano terminare gli studi, la provvisorietà lascia più volte spazio alla necessità di vivere una porzione di terra unica e dall’identità indistinguibile rispetto alle proprie genti. Passano i giorni come le notti, il ritmo del lungo e largo fiume scandisce ogni respiro, quella parentesi di umanità così unica e autoctona sembra resistere al di fuori del mondo che (fuori) appare in una rivolta continua e esasperata. È un paradiso, forse, con tutti i suoi limiti possibili, una sacca di resilienza in un paese che avrebbe visto – per l’ennesima volta – il fantasma della guerra pronto a sconvolgerlo.
Al Awhar è un documento, ma appare quasi come viaggio all’interno di un sogno distante e quasi utopico. Racconta il quotidiano degli arabi palustri degli acquitrini mesopotamici, i più diretti discendenti degli antichi Sumeri che proprio lì abitavano cinquemila anni prima. Negli anni Cinquanta erano arrivati a essere più di 500.000 mila, e la cifra circa era rimasta quella quando Hawal decise di filmarli. Ma la storia (con la s minuscola perché quella maiuscola, in questo caso, non la merita) doveva fare il suo corso, proprio sul corso di quel fiume e di quel popolo erede di coloro che portarono la civilizzazione. Durante la Guerra del Golfo, come possibile risposta all’insurrezione, Saddam Hussein ordinò lo sradicamento delle piantagioni di canne e la bonificazione di tutta l’area, costringendo la popolazione che lì abitava a rifugiarsi nel vicino confine iraniano. L’inciviltà – con sarcasmo – dell’azione di Saddam che portò gli abitanti a essere meno di 20mila, era in realtà diretta quasi esclusivamente allo scopo di nuove trivellazioni di esplorazione petrolifera. Il drenaggio del più grande ecosistema umido dell’Eurasia occidentale creò molte rivolte, ma anche il successivo governo iracheno non smise le operazioni, causando altre pericolosissime migrazioni e rendendo quella zona di Mesopotamia oramai irriconoscibile. Ed ecco che il documento di Hawal assume un’importanza quasi decisiva nel ricostruire non solo la topografia minima di un luogo, ma nel delineare esistenze scomparse, giornate vissute tra case di paglia e piccole imbarcazioni artigianali, oggi finite nell’oblio dell’assurdità di un altro conflitto.
Forse proprio qui, però, risiede la speranza della Storia costruita attraverso storie altre, antagoniste, sommerse. Anche le copie – sia positive che negative – dovevano essere portate al rogo, e cancellare ogni traccia di memoria è in un certo senso negare l’esistenza di un tempo e di uno spazio. Il film, e il suo regista, miracolosamente si salvarono – tali peripezie sono percepibili anche nell’unica copia rimasta, dai colori fragili e dalla colonna audio danneggiata – non raccontando il dramma di cosa oggi non esiste più, ma la bellezza di ciò che esso era, quasi incapsulato e cristallizzato proprio nell’atto di esser filmato. Una specie di finzione dell’oggi che era la realtà di ieri, un cortocircuito dell’esistente che assume un’importanza antropologica e sociologica anche maggiore dello stesso oggetto filmico. Rivederlo oggi – presentato a Lisbona in coppia con Swat (Sound), gioiellino di animazione dello stesso Hawal, quasi un acquerello sfocato attraverso migliaia di ombre di un esilio assurdo – assume così un senso assai profondo e mistico, quasi come se si ammirasse nel cielo la luce di una stella oramai scomparsa grazie agli anni luce di distanza. Ed è proprio la luce che inonda quella piantagioni e quelle capanne ad essere così trasmessa a noi come se anche noi ancora oggi potessimo vederla e, allo stesso modo, farne parte. In una delle scene finali di questo piccolo viaggio che dura meno di un’ora – e mezzo secolo – un ragazzino si (e ci chiede) se questo girato farà parte di un film. Il film dunque è stato, e solo questo film ci ha raccontato la sua vita, quella dei suoi genitori, parenti e amici. Essere parte di un fotogramma può essere la chiave d’accesso per una memoria a rischio d’estinzione. Al Awhar è forse, per tutto ciò e molto altro, il film che più definisce questo viaggiare nel tempo del mondo, in quell’incubatrice infinita di esperienze nella terra di mezzo tra Tigri e Eufrate. Ed ecco il cinema, quello che costruisce una realtà mancante raccontando una realtà allora presente, travalicando il momento e squarciando lo spazio. Quello di un fiume e delle sue storie, uniche come quelle di coloro che lì abitavano.
Erik Negro