25 Ottobre 2018 -

NAHAPET (1977)
di Henrik Malyan

Basterebbe la colazione sull’erba in cui Nahapet e Nubar ancora non si guardano, basterebbe l’intensità insostenibile dei primi piani e degli sguardi che sormontano le folte barbe, basterebbero le corse notturne nel vento per salvare gli alberi dalla tempesta, o l’amore ritrovato di speranza in cui queste piante iniziano a germogliare. Basterebbero le visite dei fantasmi del passato e dei bambini del presente, basterebbero i ricordi che nascono dalle nerbate ai buoi e dal sapore delle mele, basterebbero l’asciuttezza e l’emotiva partecipazione con cui la tragedia viene introdotta senza alcun sensazionalismo, senza alcuna retorica, con piccoli flashback di pochi secondi che irrompono in un silenzio che vale più di ogni possibile parola. Il silenzio di chi cammina nel dolore, nel lutto, nella mancanza, con ancora negli occhi il massacro della propria famiglia e di tutto il villaggio, testimone impotente del genocidio armeno legato con gli occhi sbarrati di fronte alla morte di chi amava. Un silenzio che sembra ormai eterno, senza più nulla da dire dopo l’orrore subito, e che invece Nahapet, che in armeno vuol dire “padre della patria, patriarca”, interromperà in un canto commosso quando riuscirà a riunirsi alla sorella, sangue del suo sangue, sopravvissuta nella sua greve sopravvivenza e unico possibile ponte fra il passato di tragedie e il nuovo illuminarsi di un futuro all’orizzonte, con la speranza di poter ripartire. Come un melo sulla spiaggia, più pura e commossa poesia in immagini che perderà i suoi frutti in una pioggia di colore, che verrà percossa dal freddo e dal vento, che sarà coperta da uno spesso strato di neve gelida, che soffrirà l’inverno e l’amarezza, ma che prima o poi tornerà ancora una volta a fiorire. E con i suoi fiori, come in un nuovo ciclo della vita o della Storia, tornerà la luce.

Non ci sono, nella storia del cinema armeno, film più importanti di Nahapet, realizzato nel 1977 da Henrik Malyan e (troppo poco) conosciuto anche con il titolo internazionale, l’altrettanto significativo Life triumphs. Un film che, pur essendo il più importante testo (non solo cinematografico) sul genocidio, relega l’orrore bellico alla devastante potenza di pochi istanti – montati, con netto scarto rispetto ai tempi dilatati del “presente”, con una rapidità ai limiti del subliminale – perché ciò che davvero conta è chi all’ecatombe è sopravvissuto, l’uomo, il suo sentimento, il suo orgoglio, la sua forza di volontà. Nahapet non è un film sull’eccidio, ma è un film sul superare il lutto e sul ripartire, in una straordinaria fotografia dell’Armenia sovietica post-massacro ottomano di metà anni Dieci che è al contempo anche preziosissimo e immersivo saggio di cinema, di etica, di estetica, di cultura, di poetica e di politica del quotidiano. È un film affascinante e ipnotico, di lunghe attese e di tradizioni, di musiche che quasi levitano sospese nei silenzi, di simboli che si susseguono fra la Storia e il presente della comunità, di drammatici superamenti e di disperate e mai dome ricerche di speranza da parte dell’uomo. Un assoluto e catartico capolavoro, che Davide Oberto, co-direttore del DocLisboa e mente che sta dietro alla straordinaria retrospettiva 2018 che naviga sullo scorrere dell’Eufrate, fiume origine della civiltà, per portare sullo schermo una mappatura cinematografica che aggiunge infiniti spunti al senso stesso del programmare lavorando su tempi, luoghi e culture, ha fortemente voluto a dispetto delle difficoltà nel reperirlo, riuscendo a mostrare a Lisbona, rigorosamente in rulli non montabili con tanto di brevi pause dovute ai cambi, la copia 35mm superba per colori e stato di conservazione proveniente dalla Cineteca nazionale russa, ancora identica alla stampa che prese i primi applausi internazionali nell’Un Certain Regard di Cannes ’78.

Prima di tutto c’è lui, Nahapet, il patriarca, che si trascina in silenzio per gli sterminati paesaggi montuosi dell’altopiano. Distrutto dalla tragedia, cammina verso la salvezza quasi più per obbligo morale che per reale volontà di ripartire, in un cammino lungo, infinito, di mesi e forse di anni, durante i quali ha fatto in tempo a nascere l’Unione Sovietica e ad annettere fra le calde braccia di Lenin parte dell’Armenia. Si sente già morto, insieme alla sua amata moglie e ai suoi figli massacrati di fronte a lui dai fucili e dai fez rossi dei militari ottomani, insieme al suo villaggio del quale, uomo saggio e rispettato, era a capo, insieme alle sue speranze, alla sua quotidianità, alla sua vita, ai suoi affetti. Giunge nella sua nuova baracca, i muri di nuda pietra, la porta aperta, il tavolaccio su cui dormire. I bambini lo guardano, i paesani ne sparlano, lo studiano, cercano di capire chi sia e cosa ci faccia fra di loro. Lui, che da quello sguardo triste non parla, che apparentemente nemmeno più mangia, che si limita a fumare in continuazione, nervosamente, quasi come se dalla combustione del tabacco estraesse il suo nutrimento, la sua aria, la sua unica ragione per continuare a respirare e lasciare il cuore libero di battere. I ricordi si ripresentano alla sua porta fra il sorriso e la lacrima, come quelle mele che la moglie così tanto amava, come quell’albero che secondo tradizione antichissima germoglia(va) con la felicità della famiglia che lo ha piantato, e Henrik Malyan li mette in scena senza un solo fotogramma fuori posto, senza un solo filo di pietismo, senza un solo briciolo di retorica. Ma con eleganza, grazia, sincerità, intensità devastante, assoluta dolcezza. Con la poesia di uno sconfinato e raffinatissimo umanesimo, che emerge dai costumi tradizionali e dalle feste di paese, dai lens flare e dai colori lievemente pastellati dei paesaggi e degli sfondi, dai chiaroscuri e dai ritratti di (non più) famiglia frontali sotto l’albero, dai lunghi cammini a piedi o sul carro e dal tenersi per mano.

Negli sguardi curiosi dei bambini Nahapet rivede quelli felici e poi atterriti dei suoi bambini destinati a non crescere, nella nuova casa rivede la sua vecchia casa e i momenti di normalità negata, e fra le nuvole di fumo la sua solitudine diventa ancor più insostenibile. Fino a quando non si ripresenterà la famiglia, prima il cognato, poi la sorella. Saranno loro a trovagli, quasi imporgli, Nubar come nuova moglie. Una vedova dalla storia così simile alla sua e dallo strazio così ugualmente smisurato, per cercare insieme un nuovo orizzonte, una nuova vita, un nuovo futuro insieme, con la forza del lavoro e lottando contro ogni difficoltà. Con la vita rurale di chi fatica quotidianamente per muovere la terra, per seminarla, per curarla, per sorridere felici di fronte al germoglio che inizia a mettere le proprie radici. Come un amore che comincia, come l’inizio di una nuova speranza di possibile felicità. Dopo tutto, nonostante tutto, più forti dell’orrore, del genocidio, della morte. Sono carri, buoi, semi, alberi che nascono e crescono, da proteggere e salvare da ogni tormenta. Magari svegliandosi di notte e correndo in giardino nel gelo e nel buio, a coprire con la lana più pesante gli arbusti non ancora sufficientemente forti e ad accendere i fuochi per riscaldarli, per tenerli vivi, per permettere loro di passare la nottata. Fino a quando Nubar non guarderà negli occhi Nahapet, ormai onorato marito: «Sono incinta», e non potrà che essere il miracolo della vita a trionfare, e a chiudere di nuovo il cerchio. Un miracolo che arriverà insieme all’elettricità, luce in cui vedere la luce, vita in cui tornare alla vita. L’inverno è finito, è finalmente giunta la primavera. Con i suoi fiori, con il verde, con i bambini per mano con cui andare verso il futuro. Con tutto l’amore di una famiglia, di una comunità, di un popolo. Di un film di una bellezza sconcertante, annichilente, sublime. Perfetto e inspiegabile come l’amore.

Marco Romagna

“Life Triumphs” (1977)
92 min | Drama | Soviet Union
Regista Henrik Malyan
Sceneggiatori Hrachya Kochar (novel), Henrik Malyan
Attori principali Sos Sargsyan, Sofik Sarkisyan, Mher Mkrtchyan, Galya Novents
IMDb Rating 5.2

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