Oltre ottant’anni di tentativi critici hanno dimostrato una cosa sola: non può esistere una definizione a parole del tocco di Lubitsch. Certo, ci sono i suoi caratteri più o meno definiti, c’è la leggerezza di fondo che mai rinuncia alla stoccata e al retrogusto amaro, c’è il gioco fra il non-detto/non-visto e il sottile erotismo di seduzioni e allusioni, ci sono gli anacronismi (a)temporali e le ficcanti satire sociopolitiche, c’è un discorso teorico e metacinematografico che ha più volte fatto irruzione più o meno fra le righe delle trame, e ci sono le continue porte che (non) si aprono e (non) si chiudono, oppure che si sbattono sulla faccia, dalle quali oltre a un ben preciso lavoro sulla spazialità dipendono anche molte delle trovate di messa in scena fra le irresistibili gag comiche e gli istanti di suspense. Ma il tocco di Lubitsch, che è tutto questo, non è solo questo. E il resto non si può spiegare. Il resto è un qualcosa che si percepisce, che calamita i sensi, che incolla gli occhi allo scorrere dei film, che incapsula nello scorrere delle immagini e nelle geniali soluzioni di messa in scena. È un qualcosa che si respira, è un qualcosa che si gusta, è un qualcosa di tattile, come una carezza affettuosa. È un qualcosa che sembra partire dallo schermo per scorrere sotto la pelle, fino ai nervi più scoperti e irrazionali, a strappare sorrisi ed emozioni, a smuovere e stimolare la coscienza e l’incosciente, e a lasciare – ogni volta – una sorta di rimpianto davanti ai cartelli finali, perché vogliono inevitabilmente dire che è giunto il momento di uscire da quel mondo sublime di risate e di riflessioni, di tenerezza e di impietose crudeltà, di tempi comici e di corridoi infiniti, di stanze deserte (oppure affollate) e di sguardi dagli usci.
Nel caso de La zarina, presentato quasi in chiusura delle Giornate del Cinema Muto 2018, il tocco di Lubitsch è un qualcosa che torna dopo troppi anni di versioni monche, di parti mancanti, di sequenze ritenute perdute. Solo da quest’anno, grazie al ritrovamento di una copia positiva in nitrato che, grazie ai fondi della George Lucas Family Foundation e al lavoro di restauro effettuato dal MoMA, restituisce buonissima parte del minutaggio originale, lo si può considerare un film (pressoché) pienamente recuperato. Certo, mancano ancora un paio di sequenze fra il secondo e il terzo rullo, fondamentali per la comprensione della trama eppure attualmente perdute, che il celeberrimo Museo d’Arte Moderna newyorchese ha dovuto ricostruire con i cartelli esplicativi che per due volte entrano a raccontare ciò che non è più visibile innestandosi su un paio di fermi immagine e di foto di scena. Il che forse tradisce in parte la filologia pressoché perfetta con cui sono state restaurate tutte le parti conservate, prive dei segni del tempo ma con i contrasti profondi, le imbibizioni oro, ocra e blu con il loro ben preciso senso narrativo, la grana della pellicola, il font dei cartelli direttamente estrapolato dai modelli del tempo, i flicker e i leggeri tremolii che un film del ’24 pretende. In questo senso però, come a rivelare i suoi intenti assolutamente tesi al recupero e non certo alla reivenzione, il MoMA ha deciso di giocare il più possibile a carte scoperte, “firmando” apertamente, con il proprio logo in fondo a destra, le (pochissime) parti “non (più) di Lubitsch”. Una scelta, quella di dichiarare apertamente i propri interventi e la loro obbligatorietà di fronte alle mancanze d’archivio, tutto sommato condivisibile, giusto compromesso fra il rigore filologico e la necessità di rendere il film di nuovo fruibile anche per gli spettatori di oggi, con cui La zarina torna all’originaria fluidità senza addentrarsi nei territori del falso d’autore.
Ma andiamo per ordine. Prima di tutto c’è lei, La zarina, Pola Negri, trasformata in stella da Lubitsch già negli anni europei e ora, da un paio d’anni negli States, ancora una volta – per l’ottava e ultima – insieme. È sua la fisicità su cui Lubitsch costruisce tutte le sue allusioni e il suo discreto erotismo, è suo lo sguardo attraverso il quale il regista lascia passare il suo inconfondibile tocco. È lei che esercita il potere, è lei che conosce le armi della seduzione, è lei la manipolatrice, è lei che fa e disfa a piacimento mettendo ogni uomo con le spalle (innamorate, ricattate o ingolosite dalle possibili repentine scalate sociali) al muro, ma al contempo di questo suo potere è sempre lei anche la prima vittima, assediata dal tentativo di rivoluzione dei soldati (non di rado sedotti e abbandonati) che non vogliono più «essere comandati da una simile donna», ingabbiata in una società in cui le relazioni internazionali si discutono sotto le lenzuola con l’aitante ambasciatore di turno, costretta nel suo ruolo politico e di donna di (non) comando. Il suo personaggio ricorda Caterina la Grande così come, più avanti, i rivoluzionari ricorderanno i Bolscevichi, ma La zarina, come a dichiarare la costante contemporaneità della sua paradigmatica vicenda, rimane sospeso nel tempo, instillandosi in un’aura di atemporalità che rimbalza fra i salotti settecenteschi, le automobili, i libretti degli assegni e i tagli di capelli a caschetto tipici della Francia degli anni Venti. Capelli che, con evidente anacronismo e come un ponte fra le diverse culture (che poi, traslato sulla fittizia Russia, nient’altro è che l’ambientamento del regista europeo a Hollywood) cadono fra le lacrime dei domestici che li conserveranno come se fossero una reliquia proprio quando Alexei, soldato venuto a conoscenza delle cospirazioni ai danni della Zarina, sta correndo a palazzo per avvisarla. Come un colpo di fulmine, sarà per la Zarina il primo vero amore in un mondo di sesso, denaro e potere, e in quanto tale non potrà che essere la sua prima vera rinuncia, la sua prima vera delusione, la prima vera sconfitta della potente abituata da sempre a sfoderare le sue armi – fra le quali la femminilità – per mantenere il controllo.
Eppure, come anticipato, il controllo esercitato dalla Zarina è solo apparente. Detiene il potere politico, economico e sessuale, spinge Alexei alla scelta fra l’amore e il potere, e dallo scorrere della vicenda emergerà come, fra politica, diletto e convenienze di vario tipo, abbia più volte in passato esercitato la stessa tecnica di seduzione e molto spesso abbandono. Ma la maschera che indossa non è del tutto una sua scelta. È un ruolo da seguire, è l’obbligato assecondare una società in cui il potere è inevitabilmente intrecciato con il sesso e con il denaro, quasi come se il ruolo di zarina fosse già di per sé, appunto, un ruolo, un copione da seguire. E se, in un sapido e universale discorso sul potere fra convenienze sociali, sentimenti e metacinema la protagonista si ritrova a essere “attrice”, è ogni volta il Ciambellano, furbo, conformista e intraprendente il giusto, l’unico possibile “regista” delle trame di palazzo. Fra congratulazioni interessate, piani nell’ombra per muovere i fili e interventi in prima persona per gestire le situazioni più critiche, è lui che mantiene la stabilità e l’equilibrio sociale, è lui che mantiene la zarina al potere. Ed è qui che, in maniera forse meno scoperta ma ancor più sottilmente metaforica e teorica di altre volte, Lubitsch mette ancora una volta in scena il cinema, il set, l’atto stesso del fare parte di una costante rappresentazione, di una costante bugia, o meglio ancora di quel paradossale reticolato di bugie sul quale indefessa si impernia “la realtà”. Fino al sublime finale, in cui Pola Negri, ancora negli abiti della zarina, sembra quasi uscire dal personaggio per regalare alla macchina il suo sguardo di attrice, nella finzione come nella realtà. Scombinando i piani, e portando a definitiva compiutezza il discorso teorico, politico e sociale di Ernst Lubitsch.
Ben al di là dell’assoluta perfezione nel calibrare tempi e spazi fra porte e battute, ben al di là del lavoro sugli attori e ben al di là della modernità assoluta nella messa in scena, nei cambi di tono e nei contenuti di una commedia che è anche film politico che è anche melodramma, per rimanere ancora una volta folgorati dal linguaggio cinematografico di Lubitsch e dal suo tocco basterebbe in un certo senso la sequenza in cui Alexei e la “sua” Anna, fedele innamorata e cameriera della zarina, si ritrovano di notte nel giardino del palazzo, di fronte al laghetto. Il regista tedesco, con straordinaria eleganza, li filma specchiati sull’acqua, come un amore capovolto dagli eventi e dalle pressioni esterne, (per lo meno apparentemente) destinato a essere distrutto con la stessa facilità con cui si distrugge la loro immagine insieme lanciando un sasso sulla superficie del lago. I tentativi di seduzione da parte della zarina, che per Alexei quasi dimentica l’ambasciatore francese costringendolo a lunghe e vane attese dopo averlo convocato, portano il soldato a vedersi conteso fra il potere al sentimento, e a poco serve la sua iniziale scelta di Anna, perché il potere non prevede che lo si possa contraddire, non prevede possibilità di scelta, e soprattutto non è abituato «a rendere conto» delle proprie azioni. Il potere è fatto di false lacrime e di bugie, di minacce e di promesse, di promozioni o di punizioni, e controlla l’uomo come la legge che sull’uomo incombe, specialmente quando entra anche la gelosia a corroborarne le derive. Tentare di contrastarlo o di ribaltarlo è aperta e insolente offesa, è causa di condanne e di esili, di separazioni forzate e di lacrime. E di reazioni spropositate, con Alexei che capisce di essere l’ennesimo burattino preso in giro dalla zarina proprio nel momento in cui lei, per la prima volta, sta scoprendo l’emergere di un amore vero, puro, fatto di complicità e di sorrisi, di mancanze e di inaspettate fitte al cuore, e con lei che finirà per destituirlo e umiliarlo proprio per non dover ammettere a se stessa la propria umana fragilità, la caduta della propria corazza, o più prosaicamente il fatto che l’unico amore della sua vita le preferisca una serva.
Il soldato, dopo liti e banchetti per difendere la sua regina dalle (invero giustificatissime) malelingue, si unirà alla rivoluzione in atto per farla cadere, ma proprio nel momento in cui si prepara l’attacco decisivo interverrà il ciambellano, da buon regista, a sedare ogni moto con il suo libretto degli assegni. Perché il potere, quando non può più far valere la propria autorità, le proprie minacce e i propri ricatti, può ancora comprare, ed è per questo che vincerà sempre. Anche contro se stesso, con la condanna a morte per alto tradimento pronunciata contro Alexei e poi con la grazia concessa dalla zarina innamorata, «Non siete così importante da lasciarvi morire», che aprendo finalmente alla sincerità del proprio sentimento spingerà il proprio amore verso la felicità, di fatto riconsegnandolo ad Anna per il matrimonio. Prima di lanciarsi, spinta ancora una volta dal ciambellano, fra le braccia dell’ambasciatore francese, che per tutto il tempo, come una vittima designata, l’ha aspettata con i baffi puntati verso l’alto e il desiderio rampante di chi, ancora una volta, cederà alla carne e al denaro, le armi più affilate con cui il potere continua a governare e angustiare il mondo. L’unico modo per tentare di spuntarle, di renderle inoffensive, è riderne. Oggi come ieri, ancora, di fronte a uno straordinario capolavoro come La zarina, finalmente tornato al suo splendore e restituito al buio della sala.
Marco Romagna