Garin Nugroho è oramai da considerarsi un maestro del cinema moderno, uno di quei grandi autori che mai hanno avuto il timore di rinnovarsi nell’estetica come nel linguaggio. Per l’ennesima volta, in questo Memories of My Body presentato fra gli Orizzonti (rinnovati nei linguaggi e finalmente tornati ottimi dopo qualche anno nel limbo) di Venezia75, il cineasta indonesiano usa il cinema come fondamentale punto di fuga in cui far convergere esperienze e identità di culture e percorsi che rischiano l’oblio. Questo, che scrivevamo già ai tempi di un dittico diversissimo uscito un paio d’anni fa (Chaotic Love Poems e A Woman from Java), è un concetto più che mai da ribadire per potersi approcciare a questo nettamente più drammatico Memories of My Body, che racconta le peripezie di un ragazzo al cospetto di un paese spesso senza identità. La parabola di Juno è emblematica. Abbandonato dal padre mentre era ancora un bimbo la cui unica preoccupazione doveva essere quella di crescere in una realtà già difficile come quella di Giava, senza alcuna direzione apparente decide di entrare in una scuola di danza Lengger, incominciando a conoscere il suo corpo con continue trasformazioni e mutamenti che lo portano ad assumere anche sembianze e movimenti femminili. Sarà la società, violenta e insensibile nei confronti del suo stato, a respingerlo ancora una volta e a portarlo a uno stato di fuga continua, da un villaggio all’altro, da un incontro a un altro. Il viaggio così diventa momento, e strumento, per conoscersi ancora più a fondo. Sono gli incontri a cambiarlo e a renderlo più cosciente (i nuovi insegnanti, gli zii, pugili e danzatori), anche se per Juno è ancora difficile mostrare la sua fisicità in una realtà quanto mai sorda e dura.
Nugroho rimane una delle figure più affascinanti, complesse e intricate del cinema indonesiano e allo stesso tempo (sempre nella soglia di definire una storia personale) continua nel suo tentativo sempre vivo di ri-costruire la Storia di un Paese. Questo film, come lui stesso sostiene, è molto più che altri una dichiarazione, o per meglio dire è l’espressione di un’inquietudine collegata a questioni personali o socio-politiche. La base di partenza è sempre un’espressione, meta-artistica, che accompagna il teatro locale giavanese e finisce per condensarsi sull’esperienza filmica che racconta le gesta di Juno, ispirato al grande coreografo Riyanto, nel suo processo prima di auto accettazione e poi di condivisione del proprio essere. Guardarsi e conoscersi non è altro che ritornare a una radice, in questo caso anche artistica, che oltrepassi le epoche e che mostri possibili identità latenti e oscurate da un processo storico come dalla morale del periodo. Ciò appare anche come un discorso di spazi, gli stessi che Nugroho determina con la sua macchina da presa, scoprendoli e circondandoli, creando un habitat possibile per Juno dove poter rivendicare la possibilità di essere se stesso. Sarà la madre, a inizio film, a invitare il ragazzo a guardare il mondo attraverso una fessura (anche da lì forse la sua ossessione per i fori del corpo, e non solo), per poter cogliere da quel pertugio l’unica luce oltre l’oscurità. Proprio con quello spiare conoscerà i danzatori che gli cambieranno la vita, e proprio ampliando quel processo che partendo dallo sguardo finisce per ampliare gli altri sensi – prima il tatto (nella scena con la gallina) e poi l’olfatto (in quella con il boxeur sul ring) – troverà la loro piena complessità percettiva e al contempo etica. Giungerà così alla propria collocazione nel proprio mondo, a una scoperta ben più profonda del suo essere, e inevitabilmente al sentimento di impossibilità che entrambe le conquiste precedenti portano in dote lungo la tortuosa strada per poter esser rispettato in un determinato contesto.
La ricerca di Nugroho questa volta si sposta su questioni più espanse, sul maschile e sul femminile che coesistono in un solo corpo (argomento assai scottante in Indonesia) e sulle potenzialità di liberazione, anche personale, che ancora appartiene all’arte. Proprio nel mescolarsi delle personalità, delle arti (e della performance) si condensa la storia di Juno radicata al secolo scorso (gli anni ’70), ed elevata a metafora di quelle scorie che il post-coloniale – basti pensare a tutte le espressioni di cultura popolare presenti nel film e derivate da ciò che andava in voga nel mondo anglosassone del periodo – lascia in grembo ma che allo stesso modo le radici non possono totalmente comprendere. Una realtà ancora incapsulata in un processo terribilmente complesso di de-occidentalizzazione e al contempo schiava di derive che la restaurazione ha lasciato nei confronti della diversità, dell’alterità, di quella ancora considerata come devianza. Probabilmente anche l’Indonesia attuale è ancora tesa tra un liberalismo economico e un radicalismo islamico che non si interroga minimamente non tanto sui diritti omosessuali, ma nemmeno sulle questioni di genere, di cosa si possa provare nel condividere in un solo corpo pulsioni di tipo maschile e femminile. Tutto ciò pesa sulle spalle di Juno, che attraverso la riaffermazione degli elementi culturali propri nella sua autenticità tenta continuamente di conoscersi, oltrepassando derive imposte a retaggi retrogradi, cercando esclusivamente la sua espressione (ma inconsciamente andando molto al di là del suo volere di partenza). Il simbolismo del corpo, come universo e casa, è così uno strumento di resistenza ed essenzialità, un qualcosa che per Nugroho rappresenta (come già in passato) una filosofia del vero che si esprime con il proprio linguaggio prima interpretativo e poi esplicativo. Una forma poetica che agisce sul personalissimo equilibrio tra rigore della forme e sostanza morale; una lingua che muta la visione e amplia il dialogo, nella prospettiva di uno svelamento (che coinvolga anche lo spettatore) che è ipotesi di scavo e riflessione nella memoria collettiva di un Paese. Una memoria che appare frastagliata come quelle ombre che appaiono protagoniste sulla quinta di un teatro, o come le parole che ancora oggi si tramandano dopo secoli di tradizione orale. In tutto questo, ancora una volta, emerge la capacità di Nugroho di raccontare una storia tra vari registri e numerose situazioni, la sensibilità di amare il suo personaggio errante e di poterlo consolare, la lucidità di ridiscutere ancora una volta l’entità culturale di un Paese che spesso trova distante e incomprensibile. Conoscere per conoscersi.
Erik Negro