Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Ed è proprio nel momento del passaggio, nell’indefinito itinere, nel costante cambiamento e nella “infinita fabbrica” che da sempre cerca e trova il suo senso e la sua profonda lirica tutto il cinema viscerale, estetico ed estatico di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti. Un cinema di materiali a volte oscuri che proprio nella materia in trasformazione declina la sua poetica; un cinema di trasfigurazioni dove non sono i punti di partenza e di arrivo a contare, ma tutto quello che sta in mezzo, il lavoro, la metamorfosi, il costante e potenzialmente infinito ri-prendere forma in sempre nuove declinazioni. Era stato così ne Il castello per i confini quotidianamente rimessi in discussione dai viaggiatori e dai voli che transitano per Malpensa, era stato così ne L’infinita fabbrica del Duomo per le statue in marmo della Basilica Cattedrale Metropolitana della Natività della Beata Vergine Maria meglio nota come Duomo di Milano, ed era stato così, seppur con quelle ambizioni/pretenziosità troppo alte che avevano parzialmente minato la riuscita del film, per i simboli degli elementi naturali che si alternavano due anni fa nel meno fortunato Spira Mirabilis. Ora, come a voler compiere quel necessario passo indietro dal quale ripartire in avanti in una più consona e calibrata direzione, l’occasione per il ritorno alla regia della coppia di autori è ancora una volta la materia, quella sotterranea, quella invisibile, quella che una gigantesca fresa meccanica a piena sezione, comunemente chiamata “talpa” o “TBM”, giorno dopo giorno sta scavando e sta portando via durante la realizzazione dei tunnel sotterranei in cui correrà fino a Linate la metro numero 4 di Milano, ovvero quella “Blu” da cui il film, orgogliosamente piccolo nel suo essere innestato sulla breve distanza dei venti minuti e girato ancora una volta in quel capoluogo lombardo che è probabilmente il territorio meglio battuto da D’Anolfi e Parenti, quello che meglio conoscono, quello su cui anche nella quasi assenza di parola hanno più da dire, prende il titolo. La M4 è una linea rimandata talmente a lungo che la “lilla” numero 5, progettata ben dopo e che sarebbe dovuta arrivare solo in seguito, ha già fatto in tempo a essere inaugurata e funzionante da più di cinque anni, ma questo Blu non lo dice, perché il suo punto non è (necessariamente) documentare, non è la contestualizzazione, ma è quasi all’opposto il partire dal concreto della terra, del ferro e del fango per tracciare una traiettoria che giunga attraverso l’e(ste)tica alla più pura astrazione, al senso, all’omaggio, all’umanità.
Presentato a Venezia75 fra i corti di Orizzonti, Blu è un film che rimane notturno anche quando di sopra si è fatto pieno il giorno, perché sotto terra la notte è indefinita e infinita, sempre scura, potenzialmente eterna come le paure ancestrali di chi è conscio di lavorare in sicurezza, ma sa anche di non potersi fidare fino in fondo della materia e del buio, a volte squarciato solo dalle luci giallastre e intermittenti dei lampeggianti. Massimo D’Anolfi e Martina Parenti si spingono insieme agli operai nelle viscere della terra per rendere l’invisibile fisico e visibile in una straordinaria coincidenza di etica ed estetica, fra il procedere dei lavori di scavo e i volti sudati e tesi degli uomini che, a rischio della propria stessa salute con tanto di prelievi e vetrini sui quali monitorarla, quotidianamente faticano per la collettività in attesa di tornare fuori a rivedere, se non proprio le dantesche stelle, per lo meno la luce della superficie. Si parte dagli ambienti esterni, dall’affacciarsi del cantiere sulla strada invasa dalla nebbia, dalla scavatrice al lavoro in superficie dove nascerà la stazione, dalle macchinette per acqua e caffè incorniciate dagli stipiti e dai finestroni, dalla mensa dei lavoratori a cui il film sarà espressamente dedicato nel finale, per poi passare al centro della terra, alle pareti tonde e granitiche da innestare nello scavo per rendere sicuro il tunnel, al timore di incidenti non verbalizzato ma leggibile sul fondo di ogni occhio, ai binari su cui si muove anche il treno provvisorio per merci e operai. Ci si concentra sui pesanti macchinari e al loro utilizzo, ma soprattutto sul loro rumore, che grazie all’eccezionale lavoro del sound design Massimo Mariani diventa una sorta di ferrosa e ipnotica sinfonia industrial/noise, magnetica nella sua profondità, disorientante nei suoi cambi di posizione della sorgente, al contempo spiazzante e folgorante nel muro sonoro del suo sovrapporsi di tracce che ritrova un impossibile ordine nel caos dei lavori e del loro frastuono. Ciò che viene mostrato è la realizzazione di una fermata, dal punto A al punto B, dal muro di terra alla caduta dell’ultimo costone che riapre finalmente ai primi spiragli della luce del sole, dalla tensione al sollievo per poter uscire ancora una volta dalla sostanziale e quotidiana caverna platonica di pianificazione e di problemi da risolvere, di certezze e di timori, di casualità e dell’inevitabile tensione di chi per troppe ore respira, come in una sorta di (anti)eroismo contemporaneo, dove l’aria pura non può in alcun modo arrivare.
Fra scalinate verso l’inferno, fango, terra da portare via sui rulli, catene, binari, pulsanti, trivelle e sublimi soluzioni visive che lasciano emergere il (generalmente non) visibile dal buio dell’inviolabile, Massimo D’Anolfi e Martina Parenti ragionano in immagini silenti quanto abbacinanti sul rapporto fra uomo e macchina, su quello fra manualità e tecnologia, su quello fra pianificazione e casualità. Su quello fra sopra e sotto, fra luce e buio, fra sangue e ferro, in quel costante modificarsi che anima l’inanimato, che rende i materiali vita, ma che in questo caso mai dimenticherà di tenere al centro l’uomo, il lavoratore, la squadra che, nella divisione dei compiti, porta avanti il lavoro fra regole e necessari tentativi di velocità sondando la durezza del terreno. L’uomo è quel minuscolo puntino che si intravvede in fondo alla colossale altezza dei muri di contenimento, l’elmetto in testa, le antinfortunistiche ai piedi e la pettorina arancione, ma soprattutto è il suo volto, la sua dignità, il suo “fare” lanciando il cuore oltre il sudore e riuscendo finalmente ad accettare, consci di vincerle, le paure più ancestrali come compagne di viaggio. Lo sguardo meccanico di Massimo D’Anolfi, come sempre direttore dell’aspetto fotografico del film, sceglie inquadrature simmetriche e spesso stordenti, fatte di sfondati michelangioleschi che alternano dettagli e profondità di campo, spesso contornate e spezzate in più livelli dalle stesse forme dei materiali che vengono spostati su e giù per il tunnel e talvolta sovrapposte in specchiature e vetri, non perfettamente puliti, sui cui si rifrangono gli schermi di controllo o i fogli con gli ordini di lavoro. La lirica emerge dall’uomo che deve interfacciarsi con i macchinari, ma soprattutto dalla consueta lentezza dei movimenti delle macchine e di ciò che spostano: una lentezza che da sola contiene le tonnellate di peso e che quasi esprime sofferenza, fatica, dolore, ma anche evoluzione, fisicità, sospensione, vita (eterna) di ciò che viene inquadrato. Fino a quando, fra acqua e trivelle, non cadrà l’ultimo pezzo perfettamente tondo di muro che aprirà allo spiraglio, permettendo di entrare alla luce del sole e accompagnando l’uscita fra i meritati applausi agli operai che hanno finito un altro turno e un altro tunnel. E sta proprio qui, in questo battere di mani doveroso eppure impossibile nei raggi del sole, dichiaratamente non vero e aggiunto in post-produzione audio, tutta la spinta etica di Blu. Perché il vero punto di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti è questa volta più che mai l’omaggio, la restituzione della visibilità e degli encomi meritati e negati a chi svolge con dignità un lavoro duro e invisibile, utile alla collettività e pericoloso, ma al contempo anche fortemente – e drammaticamente – simbolico nel buio della sua notte eterna. Sta a noi accendere la luce, non dimenticare, rispettare e quotidianamente ringraziarli.
Marco Romagna