Il secondo film da regista del brillante Brady Corbet, classe ’88 e principalmente attore (co-star di Levitt in Mysterious Skin e di Michael Pitt nel secondo Funny Games), è, come l’esordio Childhood of a Leader, una riflessione sul potere. Il film è suddiviso in 4 capitoli che coprono periodi di tempo di durata variabile, scanditi dalla voce narrante di Willem Dafoe, che descrive calligraficamente gli eventi anche con un certo distacco giudicante che sembra quello di narrazioni romanzesche come quelle di Edith Wharton. I capitoli sono: un breve prologo, ambientato in una mattinata del 1999, in cui la protagonista Celeste si trova nel bel mezzo di un eccidio da parte di un suo compagno di classe, in una situazione reminescente di Columbine; poi c’è un primo, lungo atto che descrive due anni di vita di Celeste, il 2000 e il 2001, dallo status di vittima a quello di pop-star riconosciuta internazionalmente; il secondo atto ci porta avanti nel tempo, in una giornata del 2017, in cui vediamo Celeste cresciuta (interpretata ora da Natalie Portman) preparare un concerto importante in una giornata piena di intoppi e drammi; l’epilogo è poi il concerto stesso. Nel cast, anche Jude Law, nel ruolo del produttore che porta Celeste alla fama, Stacy Martin, nel ruolo della sorella Ellie, e Raffey Cassidy, che nella prima metà del film interpreta Celeste durante l’adolescenza e nella seconda parte’ Albertine, figlia di Celeste e di un chitarrista metal tossicodipendente, anch’ella diventata pop-star adolescente. Dall’inizio ‘in medias res’, in cui la sparatoria scolastica, specchio del decadimento implosivo del nichilismo adolescenziale come in Elephant, squarcia una normalità emotiva ferendo Celeste in maniera definitiva, Vox Lux procede accumulando temi, ma principalmente proponendo una sorta di discorso su un’elaborazione del lutto che non viene mai davvero compiuta: il lutto, peraltro, è per Celeste sia un lutto interno (la propria ferita), sia esterno (i propri amici e insegnanti, l’evento pubblico), sia spirituale (la morte di una Celeste, per fare spazio a un’altra Celeste, la pop-star). La Celeste quattordicenne, accompagnata dal rapporto indissolubile con Ellie e da una profondissima religiosità cristiana, si porta sempre dietro il trauma dell’evento, ma si trasforma psicologicamente e fisicamente fino quasi a voler annullare il proprio sé che invece era perfettamente integrato nell’evento stesso, diventando sempre meno Raffey Cassidy e modulando il trucco sempre più verso Natalie Portman.
Già i titoli di testa sono mesmerizzanti, anche perché in realtà sono dei titoli di testa-coda, che scorrono con tutti i dati possibili da sapere sul film mentre sfreccia l’ambulanza con Celeste a bordo. Perché in realtà è già finito qualcosa qui, ovvero il lutto interno, dal quale poi deve divampare il resto. Le due sorelle inseparabili cominciano a produrre canzoni assieme (le canzoni del film sono composte da Sia, probabilmente la più talentuosa e intelligente tra le pop-star odierne), finché non vengono notate dal personaggio di Jude Law; e da qui comincia una parabola verso il mondo delle etichette discografiche, in direzione di una corruzione psicofisica degenerativa che ci ha ricordato la riflessione alla base di Maps to the stars. Da subito Celeste, che non si toglie mai la fascia al collo che copre la ferita (e che diventa quindi il suo ‘trademark’ pop, come le parrucche di Sia o le unghie improponibili di Brooke Candy), comincia a prendere antidolorifici, a volte per sballarsi, ed entra in un ciclo vitale più adulto, circondata da sogni cadaverici. La storia di Celeste rispecchia sia quella di molte pop-star, una su tutte Miley Cyrus, sia soprattutto la situazione drammatica che si sta creando al giorno d’oggi all’interno della scena trap, sottogenere (più o meno…) dell’hip hop che sta coinvolgendo sempre di più artisti sempre più giovani, soprattutto in U.S.A. dove Lil Peep è morto di overdose di Xanax e Lil Xan ha accusato i propri produttori discografici di abusare di lui. Ma nonostante tutti questi parallelismi che si possono fare a livello musicale, il discorso che fa Corbet è più che altro una parabola simbolica sul potere e sull’immagine, in cui il pop è la chiave per carpirne la lenta destrutturazione. L’elaborazione del lutto interno è una forma d’arte, l’elaborazione del lutto esterno è invece la costruzione di un’immagine che si diversifica sempre di più e si evolve diventando ‘façade’ pacchiana. Questa cosa è ben descritta da alcuni momenti in cui la macchina da presa si astrae rispetto al dramma di Celeste, descrivendo la minaccia costituita dall’establishment discografico con varie, espressive inquadrature di edifici e grattacieli, accompagnati dalla drammaticissima e memorabile colonna sonora del grandissimo Scott Walker. In questo momento, sospeso tra Tsukamoto e Godfrey Reggio, l’imponente architettura caotica di una geografia urbana in continuo mutamento (in cui l’11 settembre è evocato e subito interrotto da un orrido videoclip) esprime la necessità dell’immagine/icona pop che è Celeste di innalzarsi sul resto, di diventare qualcosa che rientra nella logica dei grandi numeri, dei grandi ruoli. L’encomiabile uso della voce narrante accompagna molti momenti sublimi del film descrivendo i processi mentali e i non-detti. Accompagna anche alcuni montaggi più deliranti, in cui subentra una logica da video-diario velocizzato, con improvvisazione forsennata: nella prima parte del film, descrivendo un viaggio a Stoccolma, questa scelta ha una logica vicina a Mekas; nella seconda, invece, descrive un’intossicazione graduale, portando Jude Law e Natalie Portman, al loro quarto film insieme dopo Ritorno a Cold Mountain, Closer e il bellissimo My blueberry nights, a incarnare una delle più efficaci rappresentazioni cinematografiche e narrative degli effetti della cocaina dai tempi della mezz’ora paranoide sul finale di Quei bravi ragazzi.
La parte con Natalie Portman ci porta a conoscere una Celeste cinica e irriconoscibile, che sfrutta perpetuamente il suo ruolo di potere per comportarsi da provocateur. Il patto col diavolo ha trasformato tuttavia la sua immagine da qualcosa che può esprimere positività e superamento (parziale) a qualcosa di invece tragico, la “maschera” (ispirata al tour Yeezus di Kanye West) dietro la quale si nascondono i terroristi. Celeste, a metà tra la Miley Cyrus di Wrecking Ball e la pop-star francese Mylene Farmer, vive un impoverimento morale, che sembra tramandato mediante il passaggio del tempo, la scarnificazione dell’io spirituale. Molti dei dialoghi con la Portman sembrano didascalici, prolissi, eccessivamente cinici, e per molti spettatori ciò ha portato a una visione sgradevole irritante, quando invece è per noi probabilmente soprattutto una prova di coraggio retorico per Corbet, che decide di mettere nella bocca della sua protagonista riflessioni che rispecchiano il contenuto del film solo a metà; dall’altra metà, bisogna selezionare l’informazione emotiva del personaggio di Celeste stessa, che beve vino di nascosto alla figlia, che dice di essere il Nuovo Testamento. Forse anche Vox Lux, come qui a Venezia American Dharma, è un film figlio dell’era Trump e delle riflessioni sul potere che non possono che scaturire da ciò: il potere che diventa una questione di immagine, la cecità parziale del potere che zampilla da drammi interni che devono essere dimenticati, la minaccia del terrorismo in cui bisogna rispondere con le parole. Ma le parole non funzionano, a meno che non siano slogan costituiti da sequele di lettere che in realtà insieme non hanno un vero e proprio significato a livello semantico, sono solamente slogan, discorsi parziali che nascondono l’impulso: “MAGA” come il conclusivo “Pray/Prey”. Il lungo e volgare concerto finale è un’orgia apocalittica di luci e parole, in cui diventa giustificatissimo il ruolo della fisicità della pellicola (Vox Lux unico film proiettato in pellicola al festival oltre a Sunset di Nemes), perché subentra la ‘voce-luce’ del titolo, l’icona religiosa che diventa strettamente pop, una luce fisica che sembra provenire direttamente dal cielo. Si crea un’osmosi spirituale tra bene e male, tra dio e demonio, unificata nell’essere umano, in chi agisce artisticamente e in chi osserva: anche gli spettatori del concerto sorridono e accettano tutto – anche quelli, come Ellie e Albertine, che sanno che dietro l’orgiastico accumulo di raggi luminoso c’è in realtà una persona distrutta da se stessa, psicosomaticamente instabile, rappresentativa di tutti i difetti dell’uomo. Quale può essere il nuovo potere se non quello dell’immagine? Vox Lux lascia così lo spettatore interdetto con una serie di discorsi multitematici che si incrociano per tutta la durata dell’opera: si costituisce così, insospettabilmente, uno dei film più liberi, complessi e interessanti del concorso di Venezia 75, un’opera che probabilmente merita nuove visioni, nuove comprensioni, nuove letture. La certezza, tuttavia, è che Corbet ci sa fare, sia con la costituzione di discorsi sia con i movimenti di macchina – incredibili il prologo, le due messe in scena della strage in spiaggia in Croazia, la conferenza stampa, il minuto di silenzio madre-figlia sulla spiaggia e il piano sequenza nel backstage che precede la grandeur dell’ultimo concerto. E seguiremo ancora la sua carriera, perché è già un autore di cinema articolato e, soprattutto, affascinante.
Nicola Settis