Quando László Nemes Jeles, discepolo di Béla Tarr, ha esordito con Il figlio di Saul riscuotendo grande successo sia a Cannes sia agli Oscar, è stato da subito considerato una delle principali promesse per il cinema moderno. La scelta registica del suo primo lungometraggio, ovvero l’ossessione per il piano sequenza forsennato che insegue col teleobiettivo il protagonista usando pochi stacchi attraverso gli orrori della seconda guerra mondiale, ha portato molti spettatori a considerarlo un nuovo tipo di cinema d’autore, incredibilmente empatico e immersivo, in cui l’annullamento parziale dello spazio è in funzione di un’immedesimazione pressoché totale col caos messo in scena. Si possono avere dei dubbi sull’originalità della cosa (tra Feher, Jancsó e Tarr non sono in pochi gli autori ungheresi virtuosi nel campo), ma è stato indubbio sin da subito come il talento stilistico dell’autore fosse per molti non solo accattivante ma anche intellettualmente stimolante nel superare certi preconcetti eccessivamente cerebrali del cinema autoriale odierno. In concorso a Venezia 75 c’è la sua seconda opera, Sunset, che ha da subito diviso in maniera netta il pubblico così come, forse inevitabilmente, questa redazione. Un marasma metaforico impossibile da seguire, pretenzioso e colmo di citazioni gratuite aggravate da un messaggio politico oltraggioso e irricevibile o un’opera geniale che, portando sullo schermo quello stesso spaesamento dei cittadini che non potevano capire cosa stesse succedendo in guerra, supera anche l’esordio? Ci troviamo in una posizione mediana, sospesa fra la paura di aver potuto fraintendere intenzioni non certo cattive e quella ancor più atterrente di trovarsi a legittimare ciò che, molto al di là del “bello” e del “brutto”, non andrebbe legittimato per il suo modo di trattare la guerra e l’olocausto in maniera programmatica e autoreferenziale, lontana da quell’umanità della quale sempre e comunque andiamo alla ricerca. La trama del film, ambientata a inizio ‘900, è effettivamente complessa, non tanto per la sua struttura quanto per come viene proposta all’interno dello stile del regista, che prosegue nella ricerca cominciata con Il figlio di Saul nonostante alcune complicazioni. Irisz («iride», occhio, sguardo sul mondo) è figlia dei Leiter, fondatori di una cappelleria di Budapest morti misteriosamente in un incendio. Dopo una triste infanzia passata a Trieste, torna nella città natale per cercare lavoro proprio nella cappelleria dei genitori, ma viene accolta dalla comunità lavorativa degli uffici dei Leiter come una lebbrosa, come se portasse sfortuna. Questo perché Kalman, fratello di Irisz di cui lei non conosceva l’esistenza, ha di recente sconvolto l’equilibrio sociale uccidendo un conte. Irisz, drammaticamente solitaria e distaccata dal resto, è sempre a fuoco, non sbatte mai le palpebre, e come ne Il figlio di Saul la mdp rimane prevalentemente attaccata a lei, o da davanti o da dietro, a cercare di ricavare dalla sua apparente inespressività ignava il ritratto umano di una persona che cerca l’affetto del resto del mondo, ma non riesce mai a trovare un vero controcampo. Sono plurime le scene di massa, ma sono sempre organizzate in modo da costituire un distacco rispetto allo spazio geografico interno del personaggio.
Il distacco è messo in risalto dalla contrapposizione tra ciò che è a fuoco e ciò che rimane fuori fuoco; spesso, Irisz riceve sguardi acidi e poco convinti, le uniche sue interazioni sono con chi ha paura di lei o la disprezza. La ricerca del fratello corrisponde alla ricerca di un complice, qualcuno che la salvi dalla solitudine, o soprattutto qualcuno che rimanga a fuoco con lei e non contrapposto a lei. Può Kalman rispondere alle esigenze della protagonista? È un assassino, anzi un terrorista anti-nobile, anti-borghese e anti-aristocratico, il cui essere simbolico è più importante dell’essere fisico – il che non può che causare scompensi all’interno dell’inquadratura, perché il corpo e il volto del fratello sono anonimi, e spesso rimangono anch’essi fuori fuoco. Nella ricerca egoistica ma umana di un legame, Irisz innesca un’implosione sociale scandita da ritmi allegorici. E questa missione procede concentrandosi su due nuclei, due gruppi di persone distinti: da una parte ci sono le ragazze vestite di bianco della cappelleria, una sequela di belle donne che si distaccano da Irisz bullizzandola con pregiudizi; dall’altra gli uomini vestiti di nero seguaci di Kalman, nichilisti con l’unica ambizione di distruggere, proprio come gli uomini-mostri de Le armonie di Werckmeister al quale Nemes guarda apertamente. Come il Principe che esiste ma non si vede perché è la sua ombra a comandare il popolo con un’ipnosi tramandata con la carcassa del leviatano, egualmente di Kalman è importante l’essenza figurativa del suo corpo animale, non la sua psiche né l’influenza effettiva dei suoi discorsi. Vediamo sempre questa sua essenza confrontarsi con gli accadimenti dell’intreccio, rimanendo sempre nei dintorni del fuori fuoco, apparendo poco o scomparendo definitivamente nel fuori campo o nel vuoto di un’immagine parziale e/o non completamente percepibile. Viene pure detto a Irisz, durante l’ennesimo infernale attentato: non importa se Kalman non c’è. Perché c’è, a prescindere. Se le ribellioni di Werckmeister servono per rappresentare il potere mesmerico del totalitarismo sul popolo di un paese in rovina, allora le rivolte violente di Sunset sono invece rappresentative del collasso di un impero, e lo sguardo sfocato e privo di profondità di campo di Irisz è quello dell’Europa, che si vede sanguinare innervata da conflitti interni dei quali non riesce a capire il perché. Per sconfiggere il potere, gli agenti del caos comandati da Kalman attaccano la cappelleria, sia in quanto sfruttamento errato e capitalista di un nome (ovvero Leiter) sia soprattutto in quanto personale bordello per le inquietanti pulsioni interne della setta aristocratica, che sfregia e distrugge le figure senza potere, le modiste “prescelte” che vengono portate nella reggia. Proprio come la Prima Guerra Mondiale rievocata, con tanto di citazione a Orizzonti di gloria, nel finale (questo probabilmente sì retorico e plastico, per molti versi discutibile dal punto di vista politico, per lo meno borderline da quello etico e, più in generale e questa volta senza dubbi, un po’ arrogante nel suo voler esplicitare una metafora già pienamente compiuta e compresa come se Nemes partisse dal presupposto che il pubblico, evidentemente non al suo livello di premio Oscar, non la possa capire); riporta così la vicenda alle trincee in attesa che la protagonista, vestita da soldato, chiuda il film con un brutto sguardo in macchina che vorrebbe essere monito per il futuro ma finisce invece quasi per sembrare una sfida allo spettatore, o peggio ancora, ma speriamo che non sia così, un sostanziale incolparlo.
Sì, il film è estremamente confuso, e confonde. Uscito dalla proiezione, il pubblico è divampato in una serie di discussioni su cosa effettivamente succede, su chi è chi e su cosa è cosa, quando appare il fratello, quando e se muore, e altre questioni che per certi versi con una singola visione ci paiono, per ben precisa e in realtà pienamente sensata scelta di Nemes, difficilmente risolvibili. Lo stile del regista ungherese, che propone ad libitum una serie di accorgimenti visivi sempre tendenzialmente simili l’uno all’altro fra figure che entrano ed escono dalle sfocature e di diaframmi il più possibile aperti ad accorciare il visibile, è meno avvolgente e traumatico rispetto all’impatto de Il figlio di Saul; all’immersione completa nel delirio, stavolta l’autore magiaro preferisce un approccio più lirico, in cui un prologo delicato culla lo spettatore per un po’ finché lentamente si fa strada un’idea più vicina al thriller dal retroscena storico – un’allegoria “grande” in uno spazio piccolo, viene in mente in tal senso The Hateful Eight, con una concezione demoniaca dell’esistenza rispetto alla protagonista, che nelle scene più violente rimanda a Va’ e vedi. Lo spettatore è lentamente travolto da eventi inestricabili e sempre parziali che, come i cittadini comuni dei primi del Novecento, non può in alcun modo capire, ed è proprio nel suo caos “sensato” che il film trova quella che è probabilmente la sua migliore intuizione. Il lavoro di Nemes è sempre o quasi sul piano sequenza, ma non è un esperimento ossessivo e univoco come nel film d’esordio, perché il regista prevarica la singolarità della visione, si astrae rispetto allo sguardo di Irisz – il suo ‘nomen omen’ smette di rappresentare l’occhio che si dirige verso il tutto e, rappresentando una parzialità, si fa portavoce di una lotta interiore che, nella sua individualità, elimina e distanzia l’aspetto allegorico concentrandosi unicamente sul dolore del singolo. La visione parziale smette quindi di diventare un’eliminazione dello spazio circostante e diventa un’eliminazione della logica dell’esterno, prediligendo l’interno che, tuttavia, procede in sé con questa parzialità e dunque diviene privo di logica. Il lavoro di Nemes sull’immagine, che nella sua unicità può essere tuttavia per molti irritante (in particolare nel finale), è tuttavia spesso annullato o perlomeno messo da parte da un lavoro ben più complesso sul sound design: le tracce audio si sovrappongono l’una all’altra creando un ‘soundscape’ complesso e avvolgente in cui si mischiano effetti sonori, colonne sonore diegetiche ed extradiegetiche, rumori di scena e dialoghi sia in primo piano sia in sottofondo. Dove l’immagine fallisce nel creare l’immersione che Saul Fia rendeva totale, compensa l’altro lato dell’audiovisivo, esplodendo spesso in maniera improvvisa, creando un caos che altrimenti l’immagine renderebbe parziale vista la parzialità dello sguardo stesso della cinepresa. Potrà essere accusato di superficialità o di cattiveria punitiva nei confronti dello spettatore, potrà essere discutibile quanto si vuole dai punti di vista etico e politico, ma nel momento in cui il pubblico decide di restare al gioco e di tentare l’immersione, la semplice allegoria diventa l’efficace cornice per un’esperienza pellicolare funzionale, sicuramente né originale né rivoluzionaria, ma non per questo meno priva di un impatto umano che supera la riflessione bellica sull’Europa che l’ultima e tanto contestata inquadratura mette in primo piano. Nemes anzi ha il coraggio di imporsi sull’ambiente festivaliero per diffondere e proiettare i suoi film in pellicola (qui come a Cannes nel 2015), unico nel concorso veneziano insieme a Brady Corbet, e da questo punto di vista il suo apporto al concorso ci pare più importante del film effettivo. Sunset, che ha diviso il pubblico veneziano almeno quanto Suspiria, è il disperante epilogo di una catastrofe interna come risposta a una catastrofe esterna. E in questo la domanda che rimane priva di risposte è una e una sola: Sunset è un epidermico e inaccettabile esercizio di stile manierista che retrospettivamente renderebbe in sostanza un bluff anche Il figlio di Saul o costituisce uno sguardo davvero fuori dal comune che mediante la tecnica e lo sguardo può superare l’errore apparente dell’orrore? Impossibile per ora a dirsi, ed è per questo che, fra chi grida al capolavoro e chi ha già messo una pietra tombale su Nemes bollando il film come irricevibile e il suo autore come reazionario e inaccettabile, ci pare mossa saggia sospendere il giudizio, in attesa che sia il prossimo lavoro a fare (definitivamente?) luce su un autore dal talento cristallino, ma sul quale è inevitabile nutrire per lo meno qualche dubbio di varia natura. Se sia questo legittimo o meno ce lo dirà solo il futuro. Che sarà con ogni probabilità un altro ritorno al passato, in cui dipenderà tutto dal “come”.
Nicola Settis