Sono molto poche, in Italia ma non solo in Italia, le autorialità definite, rigorose e ostinatamente libere come quella di Luca Ferri. Il suo è un cinema personalissimo, orgogliosamente indipendente, antinarrativo, surreale, necessariamente schematico e fuori dal tempo, fatto di interminabili pianisequenza fissi e di ritmi dilatati contro qualsivoglia possibile logica distributiva. È un cinema minimale e subliminale, profondamente ragionato in ogni gesto e in ogni inquadratura, fatto di citazioni e rielaborazioni culturali e letterarie coltissime nell’ossessione e nell’esaltazione dei tempi morti. È un cinema in cui ogni significante parte dal significato e in cui, coerentemente, ogni tipo di credibilità realistica viene annullata in virtù della meccanicità e dell’astrazione. È un cinema in cui non succede praticamente nulla e quasi mai nessuno si evolve, ma in cui ogni assillo si fa corpo, immagine, linguaggio, sfida, al contempo ponderato respingimento del pubblico e aperto invito a diventare parte attiva (e attivamente patologica) dei film immergendosi senza resistenze e remore nei loro meccanismi. Perché quello di Luca Ferri è un cinema al contempo radicale e utopistico, fatto di sguardo e di metodo, di aspettative dissolte nella ieraticità e di momenti inessenziali, di gesti ripetuti e di assoluto silenzio, di regole ben definite nella messa in scena e di teoria applicata per trasporle in immagini. È un cinema (im)possibile e impassibile, astratto e surreale eppure entomologico, freddo e cerebrale ma a volte provocatorio, fondato sulla totale matematizzazione e sulla certosina pianificazione di riprese che sono quasi un montaggio anticipato in macchina. È un cinema in cui tutto, anche quando come in questo caso il dialogo è totalmente assente, è scritto, calibrato al millesimo e provato allo stremo, senza che nulla sia lasciato al caso, senza che un solo fotogramma sfugga al pieno controllo dell’autore. In maniera maniacale, probabilmente l’unico modo per portare sullo schermo la sostanza primigenia di ogni mania, la sua origine, la sua ontologia, la sua brillante cupezza. A costo, come nel caso del sorprendente Dulcinea, secondo lungometraggio che emerge dalla pletora di corti del filmmaker bergamasco presentato al Locarno Festival edizione 2018 nella sezione Signs of Life, di lavorarci quasi ininterrottamente per quattro anni, tempo intercorso, con in mezzo il ritorno alla corta distanza dell’ottimo Colombi e del desertico Ab ovo, dal precedente e postapocalittico Abacuc. Quattro anni di fervente scrittura, in cui a diventare inchiostro su carta sono stati in realtà ben tre film fatti di appartamenti e di feticismi, di solitudine e di formati cinematografici, di frustrazioni e di imbarazzi, dei timidi impacci nella malizia e della monoliticità di quell’istinto che non si potrà mai cambiare, ma si può solo accettare cercando di conviverci. Perché ogni uomo, chi più e chi meno, ha le sue grandi o piccole paranoie, le sue fissazioni, le sue ansie, i suoi disturbi, le sue pulsioni, le sue attrazioni e le sue più lubriche perversioni, ma spesso cerca di tenerle nascoste al mondo sociale, e solo nell’intimo e nel privato della propria casa le lascia libere di fare il loro corso senza più limiti e vergogne.
Nasce così, dalle abitazioni e da chi nelle abitazioni vive senza filtri i propri dolori, la propria solitudine, le proprie psicosi e i propri feticismi, quella che inaugurata da questo Dulcinea diventerà nei prossimi anni e con i prossimi due lavori la Trilogia dell’appartamento. Nasce dalla volontà di Luca Ferri di tirare gli scheletri fuori dagli armadi, nasce dal suo desiderio di esplorare e sdoganare gli anfratti più oscuri e le ossessioni più scabrose anche dello schizoide e dell’alienato, nasce dal suo bisogno di partecipare personalmente e attivamente, da autore, al gioco feticistico e lubrico reso lingua filmica e impulso irrefrenabile. Un gioco nel quale, fra vestiti di pizzo, sfocature e rumori al di fuori dei confini dell’inquadratura, il desiderare e l’immaginare ciò che rimane celato fuori campo hanno un ruolo centrale almeno quanto le immagini visibili, un gioco in cui è necessario diventare feticisti insieme al feticista provando i suoi stessi brividi di fronte ai contrabbassistici tatuaggi sulla schiena di lei (Naomi Morello), e in cui il corpo e l’attrazione repressa si incarnano nella fisicità, anch’essa feticistica, di una pellicola 16mm destinata a diventare, negli altri due capitoli ancora da realizzarsi, prima i pixel elettromagnetici strisciati dallo scorrere sempre cronenberghiano del VHS e poi, dopo ancora, la pulizia rigida e definita dell’HD. Del resto, qui come nel testo di Cervantes da cui Luca Ferri ha molto liberamente tratto quello che a oggi si configura con ogni probabilità il suo miglior film, Dulcinea nemmeno esiste. Come il donchisciottesco e nevrotico protagonista interpretato da Vincenzo Turca la vediamo al suo fianco, nella stessa casa, intenta a leggere, a curare nei dettagli la sua bellezza, a cambiarsi continuamente di vestito mostrando e valorizzando il suo corpo, a non considerare minimamente chi la ama, ma la ninfa silente e superba che passa dal bagno al salotto alla camera da letto nient’altro è che il sogno dell’uomo solitario, la sua ossessione più sconvolgente, l’incarnarsi impossibile della sua donna ideale, con la quale sarà ovviamente destinato a non avere mai alcun contatto, né una sola parola, né uno sfioramento, né tanto meno uno sguardo ricambiato, ma solo ulteriori frustrazioni dei desideri più intimi e primordiali. Il Don Chisciotte nevrotico e metodico di Luca Ferri si limita a vederla senza poter fare altro che riverirla e collezionarla, come uno schiavo sessuale privato della sessualità, e ancora una volta come un voyeur represso e depresso, costretto dai suoi disturbi a sublimare il coito negato nella pulizia più maniacale quasi come se lo sfregare per lucidare fosse una sorta di masturbazione traslata sugli oggetti borghesi di cui ha riempito la casa in attesa dei (non) liberatori “colpi” su cui deflagreranno i titoli di coda. La realtà si distorce fino a negare la sua stessa possibilità, si fonde con l’onirico e con lo snaturato, diventa universale in un’atemporalità sempre/mai contemporanea, che si cristallizza uscendo dal tempo nella sua ambientazione meneghina in un principio di anni Novanta in cui lo skyline era ancora la Torre Velasca, e in cui la radio (vera e propria composizione verbal-musicale di Dario Agazzi) legge, con intenti ben più (meta)temporali, (anti)realistici e feticistici (ancora una volta inevitabili pensando a un uomo del quale il corpo dopo morte verrà trafugato dal cimitero) che realmente storici o politici, le carte processuali riguardanti il banchiere Enrico Cuccia.
Perché Dulcinea è il fascino (nemmeno troppo in)discreto della patologia sessuale e borghese, è un decalogo di problematiche psicotiche e di reazioni maniacali, è l’attrazione irrefrenabile e autopunitiva dell’erotomane solo, è l’eccitazione che nasce dal dettaglio, dall’oggetto, dalla pulsione immaginata e mai consumata sino a diventare malattia, mania, dissociazione di chi si rifugia nella fantasia per fuggire dalla frustrazione della realtà. Dulcinea, feticista nel feticismo al punto che le ripetute prove, assolutamente necessarie prima di girare pianisequenza di 8-9 minuti senza poter sprecare troppa pellicola, sono state effettuate rigorosamente senza filmare in digitale per non corrompere la fisicità del medium e organizzate al punto da avere una perfetta sincronia fra le immagini girate mute e il sonoro del take successivo registrato al contrario senza il ticchettio del 16mm, è il cambio di fuoco dell’occhio/uomo per spiarla attraverso il fregio di una porta, ed è il di lei lasciare continuamente in giro tracce della sua impossibile presenza. Oggetti puntualmente raccolti, imbustati e collezionati dall’uomo, oppure distrutti, accoltellati, rovinati per sempre, perché l’attrazione feticistica per quanto possa essere metodica è pur sempre un irrefrenabile raptus di libidine ed eccitazione, un qualcosa che non può che sfuggire al controllo e alla furia. O forse sì, perché le fantasie, gli appetiti e le pulsioni del protagonista sono sì inconfessabili, ma con ogni probabilità si fermano lì, nell’intimità, dentro l’appartamento, devastanti per la sua psiche quanto innocui per il resto del mondo. I personaggi scritti e filmati da Ferri, inespressivi e mononota come automi schiavi della loro stessa natura psicotica al punto di essere in sostanza privi di una propria psicologia, si trascinano per la casa, lei in attesa che arrivi il grasso cliente/terzo incomodo/Sancho Panza (per interpretare il quale Luca Ferri, in coerente ottemperanza al feticismo su cui il film verte, chiama ancora una volta il suo attore feticcio Dario Bacis), e lui a lucidare l’intero appartamento e a seguirla, a pendere dai suoi gesti e dalle sue necessità, dalla sua indifferenza e dalla sua completa freddezza nell’aura di un’inevitabile incomunicabilità. Perché è questa l’unica possibile relazione con un’idea, con un’ossessione che (non) prende corpo, con il frutto del proprio subconscio e delle proprie frustrazioni erotiche e sessuali. Dulcinea, nel frattempo, ascolta ancora la segreteria, si (s)veste, si cambia, legge un libro, si lega e poi scioglie i capelli, indossa e toglie gli occhiali, spennella paziente lo smalto nero sulle unghie dei piedi, provocante nel suo semplice (non esistere ma) palesarsi, mentre il personalissimo Don Chisciotte di Ferri raccoglie sistematico e silenzioso i suoi piccoli e grandi totem mettendosi umilmente al servizio delle proprie turbe. L’appartamento si fa l’alcova asessuata di un’ossessione, mentre la macchina da presa spia i suoi protagonisti trascinando nello stesso gorgo ormonale lo spettatore, ben felice di immaginare quell’irresistibile vestito di pizzo, l’unico che la protagonista non indossa personalmente, dolcemente posato sul suo corpo a lasciarne intravvedere la pelle, le forme, le spigolosità, quella bellezza distratta e un po’ altezzosa che anche quando non fa nulla per sedurre è troppo seducente per essere vera.
Marco Romagna