2 Agosto 2018 -

TARDE PARA MORIR JOVEN (TOO LATE TO DIE YOUNG) (2018)
di Dominga Sotomayor

Nel catalogo della 71esima edizione del Festival del Film Locarno la trama di Tarde para morir joven, uno dei film nel concorso internazionale, è raccontata in maniera nel contempo estremamente vaga (non sono specificati i nomi né le età dei protagonisti né i veri e propri eventi e intrighi che li legano tra di loro) ed estremamente specifica, perché sintetizza in due righe le tematiche del film delineando un filone quasi esistenzialista. Guardando il film, invece, non si ottiene un’emozione definita e non si segue un percorso segnato: la cilena Dominga Sotomayor, 33enne che ha esordito da regista con una serie di cortometraggi da giovanissima, sfrutta l’ideale sentiero che un qualsiasi film percorrerebbe nell’entrare negli stessi ambiti per poi prevaricare i confini in cui un film del genere può chiudersi. Il mondo di Tarde para morir joven è un mondo pacifista, in cui il centro nevralgico dell’attenzione è una comunità che vive nella natura, vicino alle Ande, distante da qualsiasi istituzione o legge. Eppure, già dalle primissime immagini del film, è evidente che qualcosa è destinato a bruciare. Seguiamo le avventure della comune soprattutto attraverso lo sguardo di Sofia, dolce ragazza un po’ androgina in una difficile situazione famigliare, divisa in amore tra due ragazzi estremamente diversi; durante tutta la visione, è in azione un senso di sospensione del tempo e dello spazio che rende difficile comprendere cosa è allegoria e cosa è ricerca di realismo. Il che è affascinante e ipnotico, nel momento in cui il percorso sociologico smette di avere una propria direzione definita: la linearità del logos narrativo, del resto, non è l’unico sintomo di un corretto sentiero semantico, poiché anche film come Mektoub, my Love di Kechiche o come Verão Danado di Cabeleira mantengono una struttura narrativa tutto sommato compatta nonostante nella loro idea narrativa sia preponderante l’improvvisazione (anche per rendere più vivo lo pseudo-nulla, che è anche uno pseudo-tutto, della quotidianità messa in campo). La visione diventa stimolante, ogni sguardo può essere ermetico. Il fuoco potrebbe non essere un vero e proprio fuoco, ma la fiamma proibita delle relazioni e dei sentimenti che circondano Sofia, i suoi amici e i suoi parenti.

Ma, sia chiaro, dire che non c’è un percorso interno del film non significa che non ci sia una coerenza narrativa né tantomeno un’intelligente costruzione drammaturgica, perché tutto ciò non solo è presente bensì aiuta a rendere solida l’assenza di percorso, che invece consiste nello sfruttare il mondo di competenza del film non per raccontarlo ma per girarvi attorno, senza entrare nel merito delle problematiche decisionali o etico-morali dei suoi personaggi, senza giudicare. La comunità non è presa come un esempio di un determinato tipo di scelta di vita, bensì è semplicemente una fetta di umanità, che nulla ha di distante rispetto al resto dell’umanità. Sofia, che lotta con la propria crescita sessuale costruendo attorno a sé un’armatura di mutismo e pacatezza che a volte esplode in grande maleducazione o in sfrenato autolesionismo, può benissimo rispecchiare caratteristiche o problematiche psicologiche di una qualsiasi spettatrice “del Primo Mondo”. E la Sotomayor dimostra ciò cambiando spessissimo le scelte di composizione dell’inquadratura, conferendo grande senso di pluralità o varietà alla complessità stilistica e di messinscena del campo e dei personaggi, nonostante la maggior parte del film prediliga inquadrature fisse abbastanza lunghe – eccetto che nel drammatico finale, in cui sono inseriti lunghi e fluidi movimenti di macchina che trasformano il luogo pacifico visto per tutta l’opera in un teatro di guerra. Il suo cinema ha lo sguardo puntato sul contemporaneo, sul neo-mélo ‘teen’ o ‘indie’, tutte espressioni che vogliono dire tutto o niente, un genere che per molti autori (anche solo il succitato Kechiche o Harmony Korine) è risultato il miglior specchio per la comprensione della realtà nell’era del digitale; ma i ritmi del montaggio guardano all’Oriente, alla lentezza programmatica di film come quelli di Ozu, nel passato, o di Weerasethakul, nel presente, che implicano sempre una ricerca perpetua di una risposta spirituale. Tarde para morir joven non parla di Dio, ma, manifestando un’incomunicabilità che al posto dei silenzi di Antonioni trova risposta nella ricerca di un senso e di un contatto con la natura, sembra che nelle immagini della Sotomayor ogni tanto subentri un desiderio di filmare il trascendente.

C’è qualche caduta di stile che piomba, anche solo visivamente, in un disonesto e assolutamente non necessario didascalismo, e una su tutte è la scena del concerto in cui canta Sofia, in cui due inutili dissolvenze con inquadrature già viste di lei con uno dei suoi due amati si sovrappongono al suo suggestivo primo piano (si capisce già solo dagli sguardi e dal dialogo subito dopo che la canzone era dedicata a lui e non all’altro); però Tarde para morir joven è una bella aggiunta internazionale in questo filone di cinema che gioca col pop e con l’indie per raccontare i traumi della corrente generazione di giovani sperduti nella ricerca di un’identità, e se la gioca con American Honey su qual è il film che racconta più lucidamente lo spaesamento e lo squilibrio del far parte di una comunità in disgregazione che vive secondo le proprie regole; il che è divertente anche considerando che in entrambi i film gioca un ruolo importante Fade into you dei Mazzy Star (che tuttavia rimane una delle canzoni più abusate di sempre nelle colonne sonore). E per quanto molti possano uscire dalla sala delusi, perché osservare il costante giro a vuoto di uno sguardo in un mondo distante può certamente risultare per una buona fetta di pubblico europeo un’esperienza prolissa o anche completamente vacua, il festival di Locarno ha la magia di riuscire a riempire le sale con i colori e l’estetica di queste vite libere, disordinate e sperdute nello spazio e nel tempo. E, anche se cogliere le allegorie, senza un percorso, probabilmente lascia il tempo che trova, possiamo leggere il film forse immaginando che Madre Natura, come il cane Cindy nella storia, è scappata dall’uomo o lo vuole abbandonare per punirlo, dopo tutto il karma negativo accumulato dalla distruzione dell’ambiente sulla superficie terrestre, e a questo punto possiamo solo sperare che l’uomo continui a non voler abbandonare il cinema. E se davvero è così, e se lo si fa davvero bene, anche con la natura il rapporto potrebbe diventare meno difficile.

Nicola Settis

“Too Late to Die Young” (2018)
110 min | Drama | Chile / Brazil / Argentina / Netherlands / Qatar
Regista Dominga Sotomayor Castillo
Sceneggiatori Dominga Sotomayor Castillo
Attori principali Demian Hernández, Antar Machado, Magdalena Tótoro, Matías Oviedo
IMDb Rating 5.8

Articoli correlati

ZAN – THE KILLING (2018), di Shin'ya Tsukamoto di Nicola Settis
INTRODUZIONE ALL'OSCURO (2018), di Gastón Solnicki di Marco Romagna
I DO NOT CARE IF WE GO DOWN IN HISTORY AS BARBARIANS (2018), di Radu Jude di Marco Romagna
LA FLOR (2018), di Mariano Llinás di Nicola Settis
VAN GOGH - SULLA SOGLIA DELL'ETERNITÀ (2018), di Julian Schnabel di Nicola Settis
COINCOIN ET LES Z'INHUMAINS (2018), di Bruno Dumont di Nicola Settis