Pare che da un po’ di anni a questa parte, in particolare quest’ultimo, Quinzaine e Semaine di Cannes non vadano più a scandagliare nelle produzioni minori, quelle spesso senza distribuzione e che vivono di un certo coraggio, più che mai da mostrare. Per questo “lavoro sporco” si sta muovendo l’ACID, forse l’ultimo spazio della Croisette rimasto in parte immune dalle scelte obbligate (molto spesso scontate, e purtroppo sovente deludenti). Tra i film presentati quest’anno senza dubbio una menzione la merita Un violent désir de bonheur, personalissima opera prima del giovane Clément Schneider, incentrata sul periodo appena successivo la Rivoluzione Francese. Un’opera spiazzante sulla post-ideologia politica e religiosa, che con semplicità disarmante e minimalista traccia una prospettiva estremamente personale e umana attorno a uno dei momenti politici più importanti della storia di Francia. È il punto di vista iniziale che appare subito insolito, e da questo punto di vista guardiamo tutti i settantacinque minuti (4:3, fotografati in maniera estremamente rigorosa) in uno spaccato di esistenze a noi sconosciuto. Il risultato è qualcosa di difficilmente descrivibile, e più che mai stimolante.
Siamo sulle alture (molto probabilmente pirenaiche, comunque lontano dalla città). L’anno è il 1792, e un tamburino giunge al convento avvertendo che la rivoluzione sta arrivando anche lì; l’ansia colpisce i monaci, che intuiscono che il vecchio modo che erano intenti a contemplare e difendere sarebbe svanito tutto a un tratto. Quando i soldati giungono al monastero, il più giovane dei chierici subito appare schifato dalle nuove pulsioni, e poi affascinato; si offre di curare lo spazio occupato, si veste con l’uniforme e addirittura ordina una persecuzione al padrone di turno, che per errore verrà ucciso e decapitato. Infine scopre anche l’amore, quello fisico, incontrando una bellissima ragazza di colore, probabilmente una schiava liberata, con cui si accoppia continuamente in mezzo alla natura. Tutto pare cambiato, nulla è come prima, la rivoluzione ha fatto il suo corso, ma cosa ne è rimasto? Lo penserà anche il nostro giovane monaco, nel suo cambiamento vorticoso dall’ortodossia reclusiva fino alla ridiscussione della propria Fede; come se l’estetica rivoluzionaria che tanti ragazzi ostentavano fosse meno sincera della sua piccola ma enorme rivoluzione morale, dove qualsiasi rapporto di predicazione precedente salta inesorabilmente per una coscienza dialettica più profonda, che diventa percettiva ed etica. Sorprendenti la colonna sonora elettrica e le incisioni rupestri, entrambi esercizi d’avanguardia mai fini a se stessi.
Un violent désir de bonheur è un film storico tutto di idee e quasi senza mezzi, un’opera prima che (di)mostra quale potrebbe ancora essere l’impatto di un cinema che si sforza a non fossilizzarsi, cercando vie e traiettorie diverse. Quello che ne deriva è una piccola biografia del desiderio, letteraria (c’è addirittura Sade di mezzo, Pasolini accennato e Rohmer evocato) e sensuale (la sensibile sottigliezza dell’incontro dei corpi è mirabile), che si svincola dall’uso comune del simbolo per ampliarlo, creando nuove sfaccettature e ridonandolo di senso. Il percorso di scoperta del giovane monaco è essenzialmente uno spazio in soggettiva in cui lo spettatore è invitato a entrare per prenderne coscienza; non perché il film si (e ci) ponga una scelta, ma per interpretare in maniera originale e personale l’avvenire di ogni rivoluzione. In questa continua ridiscussione che oscilla pericolosamente tra sacro e profano, insieme alla percezione liquida di rivoluzione e reazione è proprio l’uomo colui che impara a conoscere se stesso oltrepassando l’ideologia, aggrappandosi all’affetto e scoprendo un altro amore. Libero e flagrante, sperimentale ed anacronistico, folle e sincero, Un violent désir de bonheur è un film fragile e potentissimo, espressione di tutte (e nessuna) le rivoluzioni che dal corpo guardano all’anima. Potremmo essere oggi nelle montagne attraversate dai migranti, mezzo secolo fa nel maggio francese o, proprio come qui, nelle giornate di Robespierre, ma poco cambierebbe. Perché di mezzo ci sono sempre donne e uomini in cammino, e ogni scelta di parte sarà sempre una questione (almeno inizialmente) privata. Il cinema può ancora prendersi il rischio di esser coraggioso e, quando lo fa, a volte illumina nel desiderio (o, almeno, nella sua possibilità).
Erik Negro