15 Maggio 2018 -

SUMMER (2018)
di Kirill Serebrennikov

C’è un ben preciso momento in cui Summer, nuovo lavoro di Kirill Serebrennikov presentato in concorso a Cannes nella forzata contumacia regista russo agli arresti domiciliari per problemi – dicono, ma non ci fidiamo troppo della giustizia nella Russia di Putin, specialmente quando scatta nei confronti di un aperto e dichiarato omosessuale – col fisco, esprime appieno la sua sincerità di intenti, la propria natura di puro e almeno a tratti accorato omaggio. Accade in quella che è l’ultima delle maggiori croci e delizie del film, ovvero quelle sospensioni narrative – «questo non è accaduto», dirà ogni volta al loro termine il non troppo convincente narratore – in cui Summer, da biopic rigoroso nel suo bianco e nero e nei suoi ampi movimenti di macchina, lascia spazio ai suoi momenti di musical iper-pop postmoderno, sulle prime spiazzanti, poi stucchevoli nella loro ripetizione che ne rivela la natura di giochino senza la necessaria stratificazione né un reale senso che vada oltre, appunto, al verdoniano “famolo strano” applicato al cinema, e (solo) infine chiarificatori del cuore e del candore che stanno alla base del progetto, ma anche rivelatori della scarsa ambizione di un film che avrebbe avuto ben altre potenzialità.
Ora, dopo un uso vicino al criminoso di Psycho Killer, The passenger e Perfect day rilette in cover sgraziate negli incroci di voci con accento russo che più che omaggiare il punk e il suo spirito finiscono quasi per ridicolizzarlo, Summer si ferma ancora, ma questa (unica) volta lo fa con una reale idea poetica e di messa in scena, nella quale i protagonisti, in giro per la Leningrado dei primi anni Ottanta, ridanno vita in ambienti (squallidi ma) paragonabili ad alcune delle più note e rivoluzionarie copertine della storia del rock, da Abbey Road a Ramones, dalle banane warholiane dei Velvet Underground alle saette di trucco sul volto di David Bowie. Sono quei dischi che amano e che ascoltano avidamente, sono quei dischi cui anelano nel loro comporre musica, sono quei dischi che, insieme al film, apertamente omaggiano. È un omaggio, quello di Serebrennikov, rivolto non solo ai suoi protagonisti Mike Naumenko e Viktor Coj, pressoché sconosciuti qui eppure vere e proprie leggende musicali prima e dopo gli Urali, fondamentali innovatori musicali di un Paese che era rimasto indietro fra censura e divieto di alzarsi in piedi ai concerti, ma in generale alla musica e al rock, al punk, e alla spinta di modernità, di libertà e di cultura occidentale che stavano portando in un’Unione Sovietica ormai vicina ai titoli di coda. Titoli di coda che Mike Naumenko e Viktor Coj non vedranno, morendo rispettivamente a soli 36 e 28 anni. Faranno in tempo ad assistere alla caduta del Muro, ma non a vedere quella Russia nelle quali ancora adesso sono considerati i più importanti esponenti musicali.

Dichiaratamente romanzato partendo dalle memorie di Natalia Naumenko, moglie di Mike, Summer torna a un’estate, quell’estate in cui Naumenko era già affermato sulle scene (ingessate) di Leningrado con i suoi Zoopark, e il giovanissimo Viktor Coj era invece un promettente cantautore folk nemmeno ventenne conosciuto in spiaggia. Sotto l’ala del più esperto musicista, in un’amicizia che diventa sodalizio, condivisione (anche dell’amore) e collaborazione, Coj avrà modo, proprio in questa estate, di iniziare la sua luminosa carriera. È un’estate di stravolgimenti, di giradischi sempre in moto con Lou Reed e David Byrne sul piatto, di picnic bucolici, di chitarre, di appartamenti affollati. È un’estate di sigarette incenerite, di amici, di canzoni, di testi trascritti, studiati e tradotti, di censure da aggirare nelle loro discrezionalità per potersi esibire e per poter pubblicare, di sottoculture libere e ribelli che stavano iniziando a fare breccia nella rigidità statale. Ma soprattutto, per Coj e i Naumenko, è stata un’estate di sguardi, di seduzioni e (non) gelosie, di silenzi e di imbarazzi, di baci e di (non) tradimenti. Di addii che non saranno mai addii. Perché nella relazione artistica fra i due musicisti c’è al centro anche, e forse inevitabilmente, proprio Natalia, la moglie del rocker che si rende conto di sognare le labbra del giovane.
Peccato però che, nel mettere in scena l’Unione Sovietica sostanzialmente arretrata dei primi anni Ottanta, quando a Gorbaciov e alle aperture della sua Perestrojka mancava ancora qualche anno, Serebrennikov rimanga incastrato nella narrazione di questo triangolo amoroso, limitandosi ad accennare alle storture della macchina statale senza in realtà volerne parlare, limitandosi a mostrare qualche vistosa contraddizione del sistema senza però in realtà volerci ragionare sopra, e rendendo l’ambientazione del film, da potenziale spunto primario di interesse, un mero sfondo che rimane quasi fuori fuoco, quasi alla stregua di un orpello. Così come ben poco resta in mano delle riflessioni, esili e incolori, viste mille volte in tono decisamente maggiore, su finzione e realtà, su “vero” e “non vero”, sulla ricostruzione e sul romanzare, sul palcoscenico e sul set, sulle riprese nel privato e sulle maschere pubbliche, sulle immagini in cui tuffarsi, sul punk ancora soffocato in un sogno, in un taglio di capelli che deve tornare “civile” per poter tentare un inizio di carriera, nelle continue sospensioni che lo paragonano al postmodernismo del pop, e che lo mostrano e poi lo negano, che lo hanno pensato e lo hanno sognato in tempi in cui era ancora impossibile metterlo in pratica.

Anzi, paradossalmente, nell’immagine così ricercata sotto la quale, al di là della volontà sincera ma tutto sommato superficiale di fare un “omaggio”, è ben poca la sostanza, risiede una sorta di contraddizione del film di Serebrennikov, risiede l’unico vero tradimento che emerge ben al di là del triangolo amoroso. Victor Coj, più o meno alla stregua di un Bob Dylan russo, è partito dal folk per passare alla storia come uno dei maggiori innovatori del rock, è partito dalla chitarra acustica per rivoluzionare l’elettrico, è partito dal semplice, minimale, magari anche sgraziato e considerato “banale” o “stupido”, per innervarlo di sostanza e per giungere al complesso. Summer, invece, procede all’esatto opposto, lavorando sull’estetica ma non sulle stratificazioni che dovrebbero innervarla. Configurandosi come un film di cuore, ma nei fatti troppo costoso ed esibito per quella che è la sua ambizione. O, per dirla in maniera più brutale, mediocre, inutile, vuoto in quello che dovrebbero essere le sue intuizioni linguistiche, apparentemente non interessato più di tanto alla Storia e alla politica, e di una durata che si trascina senza reale motivo, fra testi, musiche, chitarre, triangoli amorosi e dialoghi non particolarmente brillanti, ben oltre le due ore.
Del resto, dai tempi del buonissimo Betrayal con il quale aveva partecipato al concorso di Venezia 2012, pare ormai piuttosto evidente come la carriera di Kirill Serebrennikov abbia intrapreso una fase discendente, prima con la religione formato baci Perugina di The student (2016), e ora con Summer, che ha tre o quattro cose buone e ne ha altre tre o quattro orrende, che ha cuore e forma ma non ha sostanza e stratificazioni, che ha ottimi interpreti ma non ha una vera e propria direzione. Se si tratti di una parabola che andrà in costante peggioramento o di un’onda destinata prima o poi a risalire non lo possiamo sapere, tutt’al più ci possiamo augurare la seconda opzione. Per ora, l’unico dato registrabile è quello del secondo film consecutivo magari difendibile, magari con qualcosa di interessante, ma in fin dei conti sbagliato. E ce ne dispiace profondamente.

Marco Romagna

“Leto” (2018)
Biography | Russia
Regista Kirill Serebrennikov
Sceneggiatori Lily Idov, Mikhail Idov, Kirill Serebrennikov
Attori principali N/A
IMDb Rating N/A

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