Spesso nel cinema, e in special modo se ci si sofferma su di una filmografia, capita che traiettorie antiche e fondanti come quelle dei sentimenti si tramandino e rivivano in autori della nuova generazione; pensiamo al Giappone, a qual è stata l’umanità di Ozu e a come Yamada l’abbia seguita (e perseguita), tramandandola sino ai cineasti di oggi. Su tutti si è mosso, in questa direzione, Hirokazu Kore-eda, e ora senza dubbio pare che tocchi a un nuovo autore come Ryûsuke Hamaguchi l’onore e l’onore di raccoglierne il testimone. Già nel suo interessantissimo e fluviale Happy Hour, extra-large nel concorso di Locarno 2015, era emersa una sensibilità particolare di Ryûsuke Hamaguchi nel guardare le storie, nello scavare con sensibilità e leggerezza nella anime, nell’indagare i rapporti tra giovani di una generazione più che mai confusa e dissipata. Ora il suo percorso prosegue a Cannes con Asako I & II, presentato nella massima vetrina del concorso principale, e si evolve in un film che pare lineare e purissimo, non privo di imperfezioni ma dalla vitalità pulsante e flagrante. Quasi fosse un’ode al tempo e al sentimento, verso qualcosa che aspettiamo all’infinito e che in quell’attesa ci corrode e ci disperde: è la malinconia di uno spazio aperto, in cui galleggiano i relitti di sentimenti pronti a riaffiorare nel confondersi di figure e di volti. E proprio in questo che la coscienza emotiva si evolve, non lasciando null’altro che un’umanità amara ma viva, complice dei propri sbagli ma impossibilitata oramai alla solitudine. Quella traiettoria che da un secolo si muove nella storia (e ovviamente nella cultura) giapponese nasce proprio dal bisogno di appartenersi, e dal senso di un rispetto che, se ferito, diventa orgoglio da rivendicare (invano).
Asako I & II (già il titolo lavora sullo sdoppiamento, non tanto fisico quanto sentimentale della protagonista) si apre con un prologo adolescenziale, con l’amore spensierato (basti pensare alla splendida scena dell’incidente accennato fuoricampo) di due ragazzi che aspettano di diventare grandi fra primi (nemmeno troppo timidi) baci, timori e promesse, non avendo ancora reale bisogno di interrogare il futuro. I due studenti si trovano e si incontrano, baciati dalla luce, e si rincorrono lievi quasi eterei, non avendo il bisogno di un appartenersi che appare ancora un desiderio da adulti. Ma il tempo passa e Osaka appare lontana. Quando lei arriva a Tokyo incontrando un sosia di lui, e da quel sosia si lascia sedurre, coccolare, amare nel quotidiano (ma mai nel profondo), il dado è tratto, e la vita prende un’altra strada, quella dello sconosciuto simulacro pronto a diventare l’amore della maturità. Ma il fantasma del passato torna a comparire (ora da modello e attore di successo), bussa forte nel cuore e nella mente della giovane fino a farle deragliare ogni progetto, ogni prospettiva, ogni scelta. Ma nel tempo di una notte tutto cambia ancora, e nel vortice di un temporale lei cercherà di sistemare (invano?) i cocci dell’eclisse dei propri sentimenti. I due ragazzi che sono attorno a lei sono le due possibilità, la prima quella dell’amore adolescenziale (astratto, immutabile, idealizzato) che non può conciliarsi con la seconda, quella dell’amore maturo (reale, rassicurante, accogliente). Entrambi hanno pregi e difetti, entrambi hanno la stessa identica immagine; Asako in ciò rischia continuamente di naufragare, perdendo direzioni e prospettive, lasciando il certo per l’incerto, logorandosi di sensi di colpa come di piccoli egoismi, e giungendo a una solitudine apparente. Mentre la pioggia scorre e l’idea dell’amore torna incapsulata nel passato, la sua realtà forse non è del tutto svanita.
Le due vite di Asako (una splendida Erika Karata) sono forse le due vite altrui che le pongono la scelta tra due diversi modi di esser se stessa. Non ha bisogno di due uomini, forse avrebbe il desiderio di averne uno che conciliasse i due lati di se stessa, quella sognante e quella reale, l’adolescente e la donna, l’ingenua e la saggia. È una ricerca, quella di Asako, che racchiude mille sfaccettature, e che Hamaguchi segue con grazia straordinaria, fino a quella fuga abbozzata, a quel ritorno, a quel doppio pedinamento continuo (la camera su di lei, e lei verso il suo amore abbandonato da riconquistare) che stordisce e incanta. Tutto scorre quasi sempre fluido (forse una leggera sforbiciata nella parte centrale non sarebbe un danno, ma non c’è un vero problema di ritmo o di prolissità), la macchina da presa è quasi impercettibile ma vicina, presente e partecipe, mentre emerge il contrasto di una figura e la ferita di una scelta che come metafora pare coinvolgere e rendere partecipe ogni cosa, dal terremoto che diventa snodo narrativo al vento che esplode sulla scogliera schiudendo pensieri fino all’immagine-flusso di un fiume che mai si fermerà, scorrendo con la stessa fluidità dell’apertura – l’avventura di un amore è destinata a non finire. Infine l’immagine, quella di lei che appare come eterea e immutabile, quella dei due lui (sempre attraverso gli occhi della ragazza) che invece si trasla dal desiderio di essere rivendicata a un senso di fiducia che viene a mancare. Chissà se l’amore ha le sue verità, senza dubbio (non) ha le sue ragioni, o almeno non sono individuabili da chi ama e che ne può conoscere solo quella debolezza che rasenta la solitudine.
Hamaguchi invita a mille storie e le abbozza, mentre traccia una topografia sentimentale dei suoi protagonisti (come dei luoghi di un Giappone in cambiamento, che rimane solo sullo sfondo) invitandoci ad amarli come loro non riescono profondamente ad amarsi. Sono i piccoli egoismi che fanno parte della scoperta di se stessi, è una lotta dicotomica fra l’amore e l’idea dell’amore, la sua percezione fanciullesca, l’innamorarsi di un ricordo, di una sensazione che non tornerà mai più. Di tutta questa complessità Hamaguchi riesce a stilizzare e astrarre, comprimere gli elementi esterni e ampliare i movimenti interni, lavorando su piccoli segni e dettagli che irrorano il film di desideri appena accennati. Perché tutta la realtà diventa la scena della propria messa in gioco, dello svelarsi di sentimenti che non trovano la parola, ma solo sguardi accennati di inadeguatezza al sentimento stesso. Quando tutto pare perso, tutto si può ritrovare e viceversa, in un’ellisse continua che dopo il temporale cerca ancora il sole e una nuova luce che sia di nuovo pronta a baciare – forse quella dell’inizio, forse una nuova che attraverso il presente possa guardare il futuro. Intanto lei, Asako, rimane alla finestre, a fianco all’amore della realtà a guardare la realtà, consapevole ora che l’amore si consuma, e allo stesso tempo ci consuma, aspettando il sereno. Perché il nostro crescere, la nostra identità, è inscindibile dalla nostra esperienza, declinata dai nostri incontri, derivata da ogni affetto. Hamaguchi invita Asako a conoscersi così come invita noi (e probabilmente anche se stesso) a conoscere noi stessi; perché quello è il primo passo, e questo cinema così semplice e così tenero, così umano e così elegante nelle soluzioni di messa in scena, così rigoroso e così poetico, trova proprio lì le sue radici. Finendo inevitabilmente per abbagliarci.
Erik Negro