Più che la numero 71, l’edizione 2018 del Festival di Cannes si presenta come un nuovo anno zero. A partire dalle rovine dell’edificio appena abbattuto di fronte al Palais du Festival, inaspettata novità quasi in odor di bombardamento che, fra polvere e patetiche transenne di copertura, in qualche modo innesta quell’assoluta ricerca di perfezione tipica del principale Festival mondiale in un’aura di provvisorietà che quasi ricorda i famigerati anni del “buco” di Venezia su cui ora sorge la Sala Giardino, il ritorno su Boulevard de la Croisette dopo i lustrini della cifra tonda si configura infatti come il Festival delle novità, dai badge di accredito che, dopo decenni, diventano verticali e con una sola piccola banda a indicarne il colore/classe sociale a una selezione – complice il divieto a Netflix dopo le polemiche dello scorso anno – forse meno “americana”, spumeggiante e mainstream rispetto alle abitudini, che porterà in Costa Azzurra qualche superstar del firmamento cinematografico in meno ma parrebbe puntare, per lo meno in attesa della risposta della sala, una maggiore attenzione alla ricerca e alla capacità di osare. Ben al di là del divieto assoluto di scattare selfie, decisione che fa quasi tenerezza nella sua (ridicola) perentorietà nel bandire un qualcosa di assolutamente inutile, magari poco elegante e forse anche stupido, ma nei fatti non certo dannoso, o della levata di scudi di Thierry Fremaux contro le molestie sessuali, probabilmente doverosa nel marasma di polemiche e denunce che hanno tenuto banco negli ultimi mesi ma onestamente poco comprensibile in un ambiente nel quale non è certo all’ordine del giorno sentire di palpeggiamenti e frasi sconce in coda o nel buio delle sale, quella che scorrerà per due settimane sotto l’immagine del bacio Belmondo-Karina nel godardiano Pierrot le fou si preannuncia come un’edizione cannense per molti versi anomala, forse di transizione o forse prima di una lunghissima serie, nella quale persino gli accreditati più fedeli dovranno capire, al pari dei novizi, come muoversi nelle nuove tabelle orarie e nelle nuove collocazioni dei film. Il vero cambio epocale di Cannes71, il vero punto di non ritorno fra le novità, sta infatti tutto nell’organizzazione delle proiezioni stampa del Concorso, che da anticipate diventano contemporanee all’ufficiale o addirittura posticipate al mattino successivo in modo da evitare fughe di commenti social prima del tappeto rosso. È una decisione estremamente contestata e controversa, che da un lato rischia di danneggiare, per cortesia agli ospiti che vengono a presentare i film, il lavoro della stampa quotidiana e della critica cinematografica costretta a partire già in ritardo e a correre ancor più del solito in un Festival nel quale il tempo, più ancora che in ogni altra occasione, è sempre stato tiranno, ma che al contempo, nella nuova ridistribuzione meritocratica degli accrediti per cui CineLapsus ha finalmente ottenuto il secondo badge stampa e nel sostanziale aumento del numero di proiezioni di ogni film, potrebbe paradossalmente rendere più agevole agli accrediti di bassa priorità l’accesso, per quanto posticipato, in sala, e quindi il lavoro di chi – come noi – non si interessa alle interviste ma esclusivamente ai testi filmici. Solo a fine Festival, tirando i bilanci, si potrà capire se questo esperimento sarà riuscito o meno. E, soprattutto, se queste novità saranno classificabili come reali novità, o se Cannes rimarrà sempre e inevitabilmente la stessa.
Perché Cannes è sempre Cannes, e alcune cose non cambieranno mai. Non cambierà mai l’importanza unica e capitale del Festival, così inavvicinabile per prestigio e potenzialità economiche per qualsiasi altra kermesse mondiale. Non cambierà mai lo stress che porta inevitabilmente in dote, fra le ore in fila sotto qualsiasi evento meteorologico senza la certezza di entrare in sala e le pressioni di un ufficio stampa che chiede una prolificità ai limiti dell’inumano. Non cambierà mai la sigla che apre ogni proiezione, così elegante eppure così discutibile nella competitiva scal(in)ata dal mare fino alla Palma nella quale film e registi sono solo ciò che sta intorno alla grandeur di Cannes. Non cambierà mai l’ambiente (sempre più) blindato, in cui entrare al Palais assomiglia sempre più a entrare in aeroporto fra metal detector e controlli di sicurezza ed è pressoché impossibile incontrare un qualsiasi VIP se non attraverso metri e metri di cordoni di guardie del corpo. Non cambierà mai la mancanza di sonno che inevitabilmente giungerà con il passare dei giorni, non cambieranno mai le gioie e sofferenze dovute al colore dell’accredito – dove essere bianchi, rosa pastiglia, rosa, blu o gialli implica scelte e proiezioni necessariamente diverse –, così come non cambierà mai il numero delle migliaia di persone che accorrono, in abito da sera già dalle primissime ore del mattino, nelle strade e sulla spiaggia di quello che per 15 giorni diventa il centro assoluto del mondo. A Cannes tutto è possibile. È possibile che la Persona non grata Lars Von Trier ridiventi grata per portare fuori concorso il suo The house that Jack built, così come è possibile che in concorso Jean-Luc Godard presenti per la seconda volta consecutiva in contumacia, a 50 anni esatti dall’edizione fatta saltare nel 1968, il suo nuovo Le livre d’Image. È possibile che Jia Zhang-ke, Spike Lee, Nuri Bilge Ceylan e Asghar Farhadi combattano per la Palma insieme a Jafar Panahi, Lee Chang-Dong, Ryusuke Hamaguchi e Alice Rohrwacher, è possibile che Matteo Garrone torni al suo sostanziale neorealismo dopo l’incursione nella fiaba di tre anni fa, è possibile il ritorno di Hirokazu Kore-eda dopo la “scappata” a Venezia, è possibile che Pawel Pawlikowski si ritrovi contro David Robert Mitchell e Kirill Serebrennikov, e soprattutto è possibile (per lo meno parrebbe possibile, in attesa del definitivo pronunciarsi del tribunale chiamato in causa dal produttore Paulo Branco) che il film maledetto per antonomasia, il The man who killed don Quixote di Terry Gilliam, veda davvero la luce dopo oltre 20 anni. Così come sarà possibile, scorrendo fra le sezioni, vedere il Donbass secondo Sergei Loznitsa, l’Euforia secondo Valeria Golino, il Long day’s journey into night di Bi Gan dopo lo straordinario pianosequenza di Kaili Blues, il Fahrenheit 451 di Ramin Bahrani, l’ultimo corto della certezza Marco Bellocchio, lo spin-off Star Wars sul giovane Han Solo a firma di Ron Howard, il ritorno dopo anni di Carlos Diegues cineasta fra i più importanti del Cinema Novo brasiliano, il nuovo lavoro di Mamoru Hosoda fra i più importanti animatori non solo giapponesi, i collettivi 10 anni in Thailandia fra i quali spicca il nome di Apichatpong Weerasethakul o le fluviali 8 ore e mezza del nuovo Wang Bing. A 50 anni dalla prima, sarà poi proiettato un nuovo restauro in 70mm di 2001 Odissea nello Spazio presentato da Christopher Nolan, mentre fra i classici troveranno spazio capolavori assoluti quali Viaggio a Tokyo di Jasujiro Ozu, Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, i Ladri di Biciclette di De Sica o, sulla Spiaggia, l’hitchcockiano La donna che visse due volte, magari messo vicino alle danze di Grease. Fra le decisioni che dovrà prendere la giuria capeggiata da Cate Blanchett e quelle, dolorose, a cui dovrà andare incontro ogni singolo accreditato, c’è sempre tanto, a Cannes, c’è sempre tutto. C’è forse troppo? E soprattutto, basta un accredito dal formato diverso e un programma rivoluzionato negli orari per parlare di reale cambiamento?
Marco Romagna