17 Febbraio 2018 -

TRANSIT (LA DONNA DELLO SCRITTORE) (2018)
di Christian Petzold

Sta in un certo senso già tutto nel titolo. Transit, nuovo e sorprendente lavoro di Christian Petzold presentato in concorso alla 68ma Berlinale che continua con inedita sapidità il suo lavoro sulla ricerca di identità fra le maglie dei totalitarismi, è indubbiamente quel Visto di transito sognato, mai ottenuto, scritto e dato alle stampe nel ’48 dopo che la romanziera tedesca Anna Seghers, iscritta al Partito Comunista di Germania da oltre vent’anni, era stata costretta dall’ascesa del nazismo a un lungo periodo da esule in Francia, ma è anche e forse soprattutto il “Transito” delle emozioni e dei sentimenti sempre destinati a evolversi e involversi, e ancor di più è il “Transito” dei tempi, quel cortocircuito storico per il quale la vicenda che nel libro di riferimento era ambientata negli anni Quaranta è stata genialmente adattata da Petzold per lo schermo traslandola sulla Marsiglia di oggi, città-simbolo con il suo porto e con le sue radicate minoranze etniche.
Se La scelta di Barbara era necessariamente da compiersi nella DDR, e se ad aver sfigurato Nelly in Phoenix – Il segreto del suo volto era stato l’orrore nazionalsocialista con i suoi orribili numeri tatuati sulle braccia e destinati a spuntare all’ultimo da una manica per svelare la più atroce verità, ora a costringere alla clandestinità, alla fuga e ai continui e necessariamente ambigui (s)cambi di identità i protagonisti di Transit non poteva che essere l’astrazione, con un presente che è passato nelle sue occupazioni tedesche del suolo francese e al contempo spettro del futuro nell’ascesa delle destre più radicali in giro per l’Europa, nel pericolo sempre più bruciante del ritorno dei fascismi, nella tensione sociale che il populismo di destra porta sempre in dote. I protagonisti sono vestiti come settant’anni fa, non hanno il cellulare e hanno bisogno di visti e documenti delle ambasciate per viaggiare, mentre intorno a loro deflagra la piena contemporaneità fra automobili di ultimissima generazione in giro per le strade, poliziotti in assetto antisommossa con tanto di radio ancorata alla spalla, reali locali nei quali mangiare e reali alberghi nei quali dormire intorno al porto, come a suggerire che gli esuli e i rifugiati politici europei di ieri nient’altro sono che gli immigrati di oggi, e che i rastrellamenti nazifascisti del tempo non sono così dissimili dai «Non sono razzista ma» che sempre più spesso si odono sfrecciare per le nostre società ignoranti e retrive, nelle quali è molto più comodo odiare chi viene percepito come diverso che rimboccarsi le maniche e cercare di crescere insieme nella libertà e nella giustizia.

Georg (Franz Rogowsky) è un rifugiato politico costretto a lasciare Parigi al momento della (nuova) invasione nazista della capitale francese. Si muove verso Marsiglia accompagnando clandestinamente Heinz, una gamba in cancrena e il destino che gli imporrà di non sopravvivere al viaggio, con in valigia il manoscritto e la certezza del visto messicano di un uomo di nome Weidel, trovato nella stanza d’hotel in cui, in un lago di sangue e a detta dell’albergatrice, questi si sarebbe tolto la vita. Giunto in Costa Azzurra, il protagonista stringerà una tenera amicizia con il giovanissimo orfano di Heinz e incontrerà Marie (Paula Beer), la moglie di Weidel, proprio l’uomo del quale, nei suoi avanti e indietro dall’ambasciata statunitense per fuggire verso il Sudamerica, aveva finito per assumere l’identità. Ma nessuna identità è veramente certa, in Transit. È tutto ambiguo, fumoso, stratificato, straordinariamente affascinante nella sua complessità. Perché Marie, in magnifici istanti di messa in scena, giunge più volte alle spalle di Georg come se avesse riconosciuto il marito salvo poi fuggire? E soprattutto quel marito che Marie, tipica donna del cinema di Petzold, pazientemente aspetta ogni giorno anche e soprattutto fra le braccia di altri, è realmente morto o prima o poi davvero tornerà? O addirittura, all’apice dei cortocircuiti e delle ambiguità, siamo davvero sicuri che Georg non sia realmente Weidel, l’uomo sotto il cui nome si presenta in ambasciata a chiedere i passaggi in nave per il Sudamerica?
Christian Petzold intreccia la Storia dei rifugiati politici con il presente dei migranti africani nuovi rifugiati politici, lavora per contrapposizioni di identità e per ambiguità storiche e morali, e nel frattempo innesta la narrazione in forme che vanno dal thriller al melodramma, da Hitchcock a Douglas Sirk, dal film storico a quello bellico, dall’azione di una fuga Fino all’ultimo respiro alla poetica di un nuovo incontro, dalle decisioni più sofferte per fare il bene fino alla consapevolezza che il destino ha deciso diversamente, e poi fino alla speranza che mai muore, ultimo ribaltamento di Georg che ora, proprio come Marie aspettava invano di veder tornare il suo defunto consorte, aspetta il ritorno (im)possibile della bella, delle sue labbra, del suo sguardo, della sua (in)fedeltà assoluta, inevitabile, necessaria. È il barista e ristoratore il narratore della vicenda, voce off destinata solo nel finale a trovare un volto, una collocazione, il senso di chi sempre vede scorrere di fronte a sé le vicende e i drammi di coscienza, i tradimenti e le bugie a fin di bene, le mani che si stringono nel bisogno d’amore per fuggire all’orrore, ma in realtà – come noi, come i protagonisti, come la Storia – non può sapere cosa sia vero e cosa sia falso, non può sapere quale sia la reale identità dei suoi clienti, può solo intuirne le emozioni, analizzarle, farle sue, raccoglierle in forma di racconto.
È a suo modo una storia di fantasmi, Transit. Sono i fantasmi del passato che tornano nel presente, sono i fantasmi dei tanti – troppi – morti che rimangono per strada lungo l’arco narrativo, sono i fantasmi di chi non sa più nemmeno chi sia, conta solo riuscire a fuggire verso la libertà, verso una nuova vita, e forse verso l’amore. Non è la guerra il vero punto del film, e nemmeno più in generale il totalitarismo che costringe i protagonisti a una vita di esuli. Il vero punto, ciò su cui Christian Petzold, autore teutonico dalle tematiche e dalle forme di messa in scena profondamente francesi, si vuole focalizzare, è invece la loro incertezza, il loro camminare su un filo teso fra la vita e la morte, il loro strazio emotivo e affettivo, la loro costante indecisione a partire dall’identità. Fare suoi i dati anagrafici dello sconosciuto scrittore è per Georg l’unico reale modo per sopravvivere, per ripartire da capo in un altro luogo, ma l’amore sopraggiunto nei confronti di Marie, unito all’amicizia nei confronti del dottore che la ama ancor più di lui e che qualche giorno prima, già sul piroscafo per il Messico, era stato fatto sbarcare dovendo rinunciare al suo sogno di libertà, diventerà rinuncia e sacrificio, atto di massimo affetto, ma anche paradossale senso di colpa verso quel destino cinico che manderà la nave su cui (forse, probabilmente, chissà) Marie sta viaggiando senza Georg ma con il dottore contro una mina, dopo l’esplosione della quale non ci saranno sopravvissuti, ma solo silenzio, macerie, devastazione, assenza. Speranza, forse futile, ma mai doma.

Dedicato ad Harun Farocki, regista e sceneggiatore amico e storico collaboratore di Petzold scomparso nel 2014 che tanto amava Visto di transito di Anna Seghers e che, come d’abitudine, prima della sua improvvisa morte aveva iniziato a lavorare a questo adattamento portato poi avanti in solitaria dal regista, Transit è un film sorprendentemente avvincente, necessariamente ambiguo, profondamente intelligente. Lucido, poetico e profondamente politico, brilla delle sue rifrazioni e delle sue ombre, dei suoi treni carichi di prefabbricati e delle sue navi, dei suoi alberghi e dei loro regolamenti che prevedono che chiunque sia identificato e registrato. Fra i soldati invasori e le fughe per la libertà, fra la burocrazia e i diritti umani, fra la collaborazione e la solidarietà, Petzold lascia deflagrare i sentimenti più contraddittori del protagonista – lei o la libertà, la salvezza personale o il sacrificio, essere una persona o essere l’altra, o forse direttamente “essere o non essere”, domanda alla quale forse, sin dai tempi di Shakespeare, mai si troverà una risposta definitiva – sempre alla ricerca di una cura contro i tormenti, sempre alla ricerca di un barlume di giustizia in un mondo perfido, iniquo, atroce. Transit è un film di cambi di idea e di tragiche (in)decisioni, di incontri e di scontri, ma soprattutto di sentimenti profondi e radicati, quelli di chi nella tragedia scopre l’amore, quelli di chi ritrova una figura paterna per poi sentirsi tradito dalla sua decisione di andare via, quelli di una madre sordomuta che ha perso il marito e ora vede il figlio a rischio della propria vita per un attacco d’asma, e non certo in ultimo quelli di chi insegna a un bambino al quale si sta affezionando a calciare il pallone, per poi riscoprire la passione di un sentimento impossibile verso una donna indissolubilmente legata al documento trafugato che tiene in tasca, e quindi al suo colpevole egoismo, alla sua convenienza (in)compatibile con i nuovi dettami del cuore.
Transit è un cortocircuito storico con il quale riflettere sulla realtà di ieri e di oggi e sull’identità individuale, ma anche sulla potenza e sullo strazio del mezzo cinema, inesauribile fabbrica di emozioni cristallizzate nell’atemporalità, nelle doppiezze di chi «non ricorda» il nome di “sua” moglie, nelle nebbie che mai si diradano dalle coltri della Storia. Quelle stesse doppiezze e nebbie che, paradossalmente, rendono così straordinariamente coerente la poetica di Christian Petzold, forse mai così complesso e stratificato, forse mai così ispirato e denso in quelle che sono sempre state le sue tematiche di riferimento, forse mai così profondamente etico e accorato nel soffrire insieme ai suoi protagonisti. Quella che rimane mentre scorrono i titoli di coda è una profonda amarezza, è un profondo senso di colpa, è un fondamentale monito perché il presente non venga davvero trasformato in una proiezione di quel passato e di tutti i suoi atroci fantasmi. E soprattutto è una sublime illusione, in attesa che ancora una volta, l’ultima e definitiva, alle spalle di Georg si presenti lei, Marie, bella come non mai, ancora viva nella sua carne e nei suoi occhi come l’amore che non muore.

Marco Romagna

Roma, 08 ottobre 2018
Ci è gradito comunicare che “LA DONNA DELLO SCRITTORE” di Christian Petzold distribuito da Academy Two
è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI.
Motivazione: Christian Petzold crea un corto circuito tra Storia e tempo portando il film a una circolarità eterna, dove i personaggi diventano fantasmi, mostrando come i migranti e i fuggitivi di ogni epoca siano costretti a essere sempre in transito. Tra identità rubate e clandestinità obbligatorie, un melò stratificato e labirintico che declina dolente una impossibile storia d’amore.
(uscita 25 ottobre)
“Transit” (2018)
Drama | Germany / France
Regista Christian Petzold
Sceneggiatori Christian Petzold
Attori principali Paula Beer, Franz Rogowski
IMDb Rating N/A

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