22 Dicembre 2014 -

A SPELL TO WARD OFF THE DARKNESS (2013)
di Ben Rivers e Ben Russell

Il 2013 è stato un anno fruttuosissimo: tra Aleksei German, Tsai Ming-Liang, Lav Diaz, Wang Bing, Edgar Reitz, Sion Sono e le opere conclusive dei due principali registi dello Studio Ghibli (Hayao Miyazaki e Isao Takahata), è stata un’annata colma di opere ottime, spesso capolavori, spesso film teorici su come rapportarsi al Cinema stesso. E riguardo a quest’ultima categoria, non si può escludere A spell to ward off the darkness, misterioso documentario di Ben Rivers e Ben Russell sulla vita del musicista afroamericano Robert Aiki Aubrey Lowe, in arte Lichens (che ha peraltro suonato il tanpura e cantato negli ultimi due dischi degli Om), in particolare riguardo alle collaborazioni con un gruppo black metal senza nome. Ben Rivers è un regista sperimentale britannico che precedentemente, nel meraviglioso Two years at sea (2011), aveva mostrato una predisposizione a trattare soggetti solitari “presi dalla vita reale” e collocati in una natura misteriosa, mentre Ben Russell, americano, è autore di opere legate all’etnografia (come l’ottimo Let us persevere in what we have resolved before we forget, 2013) o al surrealismo. La collaborazione tra i due ha la forma di un documentario tripartito in cui non è chiaro cosa sia realtà e cosa no (come in Two years at sea, del resto) e nel quale, dopo un prologo oscuro, naturalistico e suggestivo, vengono mostrati tre momenti della vita di Lichens: la routine in una comune hippy estone, nella quale il musicista è sempre in sottofondo e mai protagonista; il suo errare senza scopo attraverso la natura (in Finlandia); un concerto black metal che lo vede come chitarrista e cantante.

I segmenti sono divisi da inquadrature veloci in cui in mezzo al nero si può scorgere un triangolo, come per sottolineare la natura tripartita dell’opera. Nella comune, lo spettatore si immerge nella logica anacronistica dell’hippy e, come Lichens, la vede con distacco, simpatizza con loro e ascolta i loro dialoghi senza (forse) riuscire a capire davvero la filosofia anarchica e liberatoria che ispira il loro modo di vita da un punto di vista politico o sessuale. Gli atti di quotidianità nei quali sono ripresi i membri includono: sauna, discussioni filosofiche, attività di costruzione architettonica e dialoghi sugli effetti psicologici della musica trance. Rivers e Russell teorizzano così la prima di tre modalità di vedere la vita e il cinema, trasformando la succitata tripartizione in una vera e propria esibizione di un rapporto di complicità tra lo spettatore e Robert Aiki Aubrey Lowe, nel quale la presenza di questi (il suo sguardo, il suo essere in sottofondo) è intesa a far capire allo spettatore come guardare più che cosa guardare. L’approccio di Rivers e Russell qui è documentaristico, ma comunque più che altro vicino al Cinema Diretto: non si sente la presenza di qualcuno dietro la macchina da presa, e l’immagine ha una funzione più che altro liberatoria, non ristretta neanche da veri e propri limiti contenutistici. Ci s’immerge dunque nei meandri di questa comune e si vive una visione fino all’identificazione con i suoi membri, in un dialogo ed in un’espressione concettuale e visiva aperta, senza confini.
Se la prima sezione del film è impostata sulla visione del cinema come immersione e quindi come partecipazione, la seconda è senza dubbio incentrata sul livello della riflessione o della contemplazione, del rapporto uomo-natura o individuo-mondo o uno-tutto. Lichens non pronuncia una parola per tutta la pellicola (escluso l’urlare/cantare del terzo segmento), ma qui il silenzio è condizione naturale e necessaria per dedicarsi a una meditazione lenta e inesorabile. Che altro non è, ovviamente, che una seconda maniera di guardare il cinema, quella che non coinvolge il dialogo ma la semplice ammirazione dell’immagine, una maniera più primordiale ma soprattutto più spirituale, meno convenzionale per lo spettatore medio. Rivers e Russell spostano Lichens in un ruolo sospeso in un limbo, e il suo personaggio viene ritratto mentre legge, passeggia, semplicemente osserva azioni e momenti di silenzio fuori dal tempo che finiscono per essere inattuali, diversi dal ritmo della quotidianità. Vengono rese preziose le “piccole cose”, gli attimi, i particolari, e non per un motivo preciso ma semplicemente per attrarci nella modalità di visione stessa Lichens (o, almeno, del suo personaggio di cui non sappiamo quanto sia finzione e quanto no). E anche in questo caso lo spettatore si deve immedesimare in lui e nel suo posare lo sguardo verso un determinato dettaglio invece che su un altro, o nello sguardo di Rivers e Russell, che magari tengono la macchina fissa sul protagonista seduto in una barca in mezzo ad un lago a non far niente mentre diluvia. I due sguardi si confondono. Lo spezzone si conclude con echi tarkovskiani, forse un enigmatico richiamo alla conclusione di Sacrificio (1986): una casa di legno che brucia in mezzo al niente, Lichens (il volto imbiancato, pronto per il concerto black metal) che la fissa impassibile.
Il più enigmatico dei tre segmenti è proprio il conclusivo. Il concerto black metal è girato con tre piani sequenza consecutivi che fluiscono l’uno nell’altro impassibilmente con giochi di sfumature quasi impercettibili, e la macchina da presa si concentra tanto sul volto di Lichens quanto su quello degli altri membri del gruppo, da un cantante (Hunter Hunt-Hendrix dei Liturgy) dai capelli lunghi e biondi e dal volto giovane a un batterista (Weasel Walter dei Flying Luttenbachers) animalesco e primitivo fino a un chitarrista (Nicholas McMaster dei Krallice), perennemente sudaticcio. L’esoterismo delle luci, il cupo trucco bianco dei membri del gruppo e il muoversi lento e poco emozionale del pubblico danno a questa sezione un’aura misteriosa e alienante, che è sottolineata e fortificata dal sottofondo musicale brutale e dalle espressioni forzatamente disperate di tutti i musicisti. In un momento quasi inaspettato, Lichens, senza proferire parola e dopo aver cantato con struggente intensità per qualche minuto, scende dal palco senza salutare nessuno, si strucca allo specchio e si allontana mentre in sottofondo risuonano applausi. Esce, cammina nella notte, sembra fermarsi in mezzo al buio ma, magicamente, mentre crescono per intensità effetti sonori caotici, la sua figura scompare e lascia spazio a un faro lampeggiante in lontananza. Dopo il cinema di partecipazione e quello di riflessione, è il tempo di un cinema di evocazione emozionale, non di discussione filosofica ma solo di allegoria grafica e visiva, criptica, misteriosa. Lichens scompare per inadeguatezza al contesto musicale, essendo più legato alla natura o al comunismo datato della comune estone? O si smaterializza per non essere riuscito a trovare un ambiente a lui consono, finendo come la coeniana figura dell’”Uomo che non c’era”?

Suggestivo, elettrizzante, sciamanico, A spell to ward off the darkness è tra le più riuscite collaborazioni cinematografiche degli ultimi anni, un film che esplora il trascendente e l’umano e riesce a trovarli tanto nella brutalità del metal estremo quanto nel pacifico silenzio della natura, ponendo tante domande e rispondendo a pochissime di esse. E l’”incantesimo per respingere l’oscurità” del titolo, cosa può essere? Forse, il Cinema stesso, quel magico fluire d’immagini capace di unire contesti diversi sotto l’alone dello stesso concetto e che, forse, invece che respingere l’oscurità, le può restituire la bellezza attraverso l’occhio di chi guarda – o di chi sa guardare, di chi vuole guardare.

Nicola Settis

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“A Spell to Ward Off the Darkness” (2013)
98 min | Documentary | France / Estonia / Germany
Regista Ben Rivers, Ben Russell
Sceneggiatori Ben Rivers, Ben Russell
Attori principali Robert Aiki Aubrey Lowe
IMDb Rating 6.0

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