«Vorrei gridare il mio saluto al cielo prima di tornare giù in mezzo alla gente. Ma dove andrà il mio saluto? Sono così sola. Terribilmente sola, tanto che nessuno può immaginare la mia solitudine. Amore mio, io ti saluto. Chi sei? Ti saluto mio promesso sposo! Ma chi sei?…»
Arthur Schnitzler, La signorina Else, 1924
Per tentare di avvicinarsi a un film denso e stratificato come Phantom Thread viene quasi naturale partire dal titolo. Un titolo che già in sé racchiude gran copia di possibili chiavi di lettura, dal filo con il quale, come un vezzo d’artista, lo stilista Woodcock nasconde ricordi, segreti e brevi messaggi nelle imbottiture dei suoi abiti, a quello invisibile, eppure palpabile, che lega indissolubilmente i personaggi e le loro anime, le loro (in)certezze, le loro emozioni e, appunto, i loro fantasmi del passato e del presente. Proprio per questo Il filo nascosto, titolo italiano scelto da Universal per la distribuzione nella Penisola (uscirà nelle sale il 22 febbraio 2018), è in un certo senso una traduzione solo parziale di quello che sarebbe potuto essere il più letterale “Il filo fantasma”. Perché il Filo scritto e diretto (e se è per quello pure fotografato, ma ha preferito non accreditarsi parlando di “lavoro di squadra”) da Paul Thomas Anderson non è solo un oggetto celato alla percezione dell’occhio umano che spia in maniera maniacale e manipolatrice le sfilate danzerine, ma è più semplicemente un qualcosa di distante da una visione tradizionale, intessuto nel reame di un inspiegabile fuori campo di emozioni e di (non) detti che si perdono tra le righe e fra le immagini come una seduzione affascinante quanto stordente. Ciò che invece, al di là di come lo si voglia chiamare, nel film non è né Nascosto né Fantasma ma si vede chiaramente sin dai primissimi minuti, è come Phantom Thread segni l’ennesimo innalzamento dell’asticella nel cinema complesso e ambizioso di Paul Thomas Anderson, configurandosi come ulteriore e sapido capitolo della sua ricerca dolcemente ossessionata di comprensione della natura umana e al contempo, pur spingendosi per la prima volta oltre l’Oceano Atlantico e approdando in Inghilterra, nuova pennellata su quell’Affresco d’America che da sempre il regista porta avanti film dopo film.
Dopo un inizio di carriera che prendeva a piene mani dall’occhio della Hollywood Renaissance rileggendo Scorsese, Schlesinger e Altman con punti macchina anticonvenzionali e grandi storie sul Caso e sui perdenti schiacciati dalla distruzione delle certezze sociali, con il (sottovalutato) film-ponte Ubriaco d’amore (2002) Anderson è passato a caratterizzare di più i suoi progetti, incanalandoli verso narrazioni più individuali attraverso le quali discutere il presente tornando nel passato. In There will be blood (2007), uscito al tempo in Italia con il decisamente meno evocativo Il petroliere, era messa in scena una drammatica lotta di dinamiche di potere tra i nemici del Marxismo, da una parte la Chiesa e dall’altra il Capitalismo, in un flusso d’immagini, curato da Robert Elswit, capaci di alternarsi con un ritmo alienante e stordente. In The Master (2012) invece, ben al di là delle divergenze di opinioni fra chi scrive – chi estasiato, chi decisamente più freddo – nel giudizio di merito finale, l’elemento focale era la natura più profondamente nascosta nell’uomo, con un pre-adamitico Joaquin Phoenix che, subendo una costante ipnosi vicina a una trance, finisce per diventare una sorta di scimmietta ammaestrata che però non rinuncia agli impulsi primitivi nonostante l’affascinante e violenta seduzione di una setta religiosa. Inherent Vice (o Vizio di forma, che dir si voglia, 2014) si spostava da Hubbard a Pynchon, muovendo l’occhio da Kubrick e Welles ai Coen e nuovamente ad Altman (Il lungo addio), dalla visione cinematografica ipnotica agli anni dell’LSD e alle porte della percezione di Huxley, dagli U.S.A. degli ex-Marines e dell’alta borghesia a intrighi incomprensibili, indagini e spionaggio allucinato in un mondo dal cuore selvaggio. Daniel Plainview, Freddie Quell e Doc Sportello sono tutti personaggi ambigui, inetti che cercano uno spazio nel mondo, con immediate e cruente esplosioni di violenza in cui l’alienazione diventa espressione, il testo diventa immagine, la contemplazione della bellezza e dell’assurdità diventa tensione. Plainview perde la capacità di comunicare col figlio, Quell è costretto a non sbattere le palpebre, Sportello è messo con le spalle al muro dal rapporto con l’altro. Cos’è, invece, Woodcock, il sarto “più esigente del mondo”, come dice la protagonista Alma (non certo per caso ‘anima’ in spagnolo) nella primissima sequenza del film?
Reynolds Woodcock è in un certo senso l’ennesimo “Ubriaco d’amore” della filmografia di Paul Thomas Anderson, l’ennesimo uomo messo di fronte alle proprie fragilità, alla propria instabilità, alla propria inettitudine che inevitabilmente emerge anche dalla vita più realizzata. Quello che, pare, sarà l’ultimo (immenso) ruolo interpretato dal “pensionato” Daniel Day-Lewis parte da una vita apparentemente perfetta, la vita di un artista, di un uomo realizzato fra il successo della sua casa di moda ben oltre i confini della Londra anni Cinquanta nella quale vive e lavora e i cocktail serali con la più alta società. Sa di essere il migliore, e per questo, al di sotto della sua straordinaria eleganza e della sua galanteria da perfetto gentleman britannico, è narciso, un po’ bullo, egocentrico e non di rado misantropo, ossessionato dal lavoro al punto che ogni mattina il sole, sorgendo, lo trova sempre già all’opera, a disegnare, a cucire, ad appuntare l’ennesimo spillo perché il vestito calzi alla perfezione. Woodcock pretende silenzio per potersi costantemente concentrare, non accetta che si critichi un suo tessuto, non sopporta le sorprese a costo di trasformare in puro gelo una cena romantica, si offende personalmente se qualcuno usa la parola “chic” e nel frattempo promette sicuro alla Principessa Reale del Belgio, senza indugio alcuno, “L’unico vestito da sposa che sia mai stato fatto”. Ma poi, nel suo microcosmo di successo, stima, eleganza e muse prese, sfruttate, sfrattate e sostituite, entra in gioco Alba, la goffa cameriera in cui Woodcock intravvede un portamento, una bellezza e una grazia che nemmeno lei avrebbe mai immaginato di possedere. In un continuo gioco di seduzioni pregno di tensione al contempo erotica e sentimentale, un gioco fatto di sguardi e di piccoli imbarazzi, di sfioramenti per prendere le misure e di magnifiche pause prima di rispondere affermativamente agli inviti a cena, Alma diventerà la musa perfetta dell’artista, la modella che più di tutte sapeva resistere ferma e in piedi, ma anche, per l’uomo, la perdita del proprio autocontrollo, della propria routine, delle proprie certezze. Alma è per Woodcock l’amore, puro, inaspettato, (sempre) scioccante, e nel vano e impossibile tentativo di controllarlo Reynolds scopre la propria incapacità di vivere reali rapporti emotivi. Solo attraverso la crisi, l’umiliazione e la perdita di controllo – o meglio, attraverso la cessione del controllo del proprio corpo ad Alma, attraverso l’avere finalmente bisogno di qualcuno, attraverso il dipenderne totalmente – Woodcock riesce a tornare un essere umano, a vivere fino in fondo la propria emotività e i propri sentimenti senza più interessi, senza più filtri, senza più ossessioni, senza più dubbi, senza più barriere.
Woodcock vive di egocentrismi e di eccessi, come tutti gli artisti, e come tutti gli artisti alterna l’ispirazione e la crisi creativa, cavalca l’entusiasmo quando c’è l’abito perfetto da confezionare e crolla nel momento in cui è necessario fermarsi, smettere di essere macchine, svestirsi della propria ostentata mascolinità e ascoltare il proprio cuore. Riesce ad amare compiutamente solo quando soffre, quando è costretto a riporre la corazza d’artista per lasciar emergere il bambino che ha bisogno di cure, quando il suo ego è annichilito, umiliato, sudaticcio, febbricitante. Che sia una crisi passeggera, destinata a estinguersi in qualche giorno di riposo e romantica tenerezza, o che sia una crisi voluta, premeditata, provocata. Tossica, come la relazione che instaura con la bella Alma, come la venerazione nei confronti di una madre mai davvero andata via, oppure come il rapporto ambiguo con la pragmatica sorella e assistente, figura onnipresente ora inquietante e ora unica parte saggia. O forse, magari, quella di Woodcock è una crisi tossica proprio come le spore velenose di un fungo, sorta di velenoso filtro d’amore con il quale Alma penetra la durezza dell’inscalfibile perfezionista per (ri)conquistare il suo cuore. Woodcock vive dei suoi due estremi e della loro alternanza, da una parte matto e disperatissimo nel lavoro al punto di chiudere a ogni emotività ponendosi come maschio dominante, dall’altra tenera e sofferente creatura indifesa bisognosa e dispensatrice di baci e carezze. Insieme ad Alma, Woodcock scopre la sua necessità di soffrire per amare, di scoprire il fianco a un (sado)masochismo che diventa fiducia reciproca nel rapporto di coppia e unica possibile apertura alla reale passione. Nessuno dei due ha, né vuole, reale predominio e controllo sull’altro: i ruoli si ribaltano continuamente fra forza e debolezza, fra dominante e dominato, fra predatore e preda. Così come Woodcock non vuole realmente ferire Alma nei suoi momenti di misantropia, lei non ha mai intenzione di nuocere al suo amato, non è reale manipolatrice nemmeno quando consapevolmente lo intossica, non vuole mai mettere realmente in pericolo la sua vita. Vuole solo che Reynolds abbia bisogno di lei, che la cerchi, che sia in grado, per lo meno per qualche giorno, di aprire nuovamente al suo intimo. In un certo senso Alma è anzi proprio la sua complice, la sua anima, la sua parte (ir)razionale, la salvatrice dell’uomo che agisce in nome dell’amore fino a farlo trionfare, perché Amor vincit omnia, sempre. Alma è una donna innamorata che sa fare innamorare, e che capisce l’intima necessità, “Baciami prima che io inizi a stare male”, di chi vuole avere bisogno di cure, ha bisogno di passare dalla debolezza per poter tornare forte, di chi ha bisogno di fidarsi di qualcuno, ma non osa chiederlo perché bloccato dall’orgoglio, dalla routine, dal ruolo sociale, dal lavoro, ma soprattutto da se stesso, troppo occupato a dissimulare le proprie fragilità e le proprie insicurezze per riuscire ad affrontarle da solo.
Paul Thomas Anderson torna agli anni Cinquanta, collocazione temporale che fu anche di The Master, ma come nel film del 2012 anche in Phantom Thread non vengono poste precise coordinate storiche oltre a sparuti e brevissimi accenni: riaffiorano i crimini della Seconda Guerra Mondiale, si tengono festosi Capodanni tipici del Dopoguerra, automobili d’epoca sfrecciano veloci senza una direzione ben precisa, ma il film è come sospeso in un’aura di atemporalità, dove nelle case vittoriane ancora vige l’eleganza della Belle Époque, e dove nemmeno un “fuck off” febbricitante riesce davvero a scalfire l’etichetta e l’eleganza dei gentlemen britannici. Saranno complici le riconoscibilissime espressioni facciali e vocali di Day-Lewis e la straordinaria eleganza formale del regista, ma uno dei film-riferimento che più balenano come possibili spunti di partenza di Phantom Thread è L’età dell’innocenza di Martin Scorsese, un viscontiano simulacro che, nonostante un certo barocchismo e una propensione per effetti di montaggio invecchiati peggio di quanto ci piacerebbe ammettere, è un vero e proprio saggio di metodo ed espressività cinematografica. L’Ottocento newyorchese di Newland raccontato da Edith Wharton sembra entrare in simbiosi con l’alta società dell’industria di moda londinese di metà Novecento, perché a un certo livello aristocratico tutto sembra confondersi, tra le ipocrisie della pura bellezza formale e la superficialità conferita all’alta borghesia dal vizio. Tra dissolvenze che evocano il sogno e sguardi innamorati accesi dai focolari, con la cinepresa che balla spaventata e commossa tra momenti di cinema classico e intensi scambi di sguardi che sottolineano la presa di coscienza di un atto di separazione, sembra cristallizzarsi il ritmo del tempo che passa: sì, c’è l’amore, ma dove c’è “ἔρως” c’è per forza anche “θάνατος”, una morte che non si manifesta tanto come una paura quanto come un fantasma che serpeggia, che si infiltra di nascosto dietro le porte a osservare, che rimane celato nella fodera di un abito, o sorveglia (con amore) i corpi malati (d’amore). E proprio qui subentra la visione mistica che ha Woodcock quando vede sua madre che lo spia, muta; è un’apparizione angelica di bellezza ma è anche una riflessione dell’ego di un uomo che proietta i propri legami terreni decomposti come cibo per le sue manie, per le sue opere d’arte, per gli abiti che con tanta cura ha creato per gli altri, e che gli altri devono meritarsi di poter portare. Un po’ come i cervi nella neve sognati nel recente Corpo e anima di Ildikó Enyedi, Orso d’Oro all’ultima Berlinale con il quale l’amore osteggiato ma destinato a vincere secondo Paul Thomas Anderson presenta una sorta di apparentamento poetico e tematico, è necessario lasciare libero spazio alla propria sfera onirica, al proprio inconscio, al proprio subcosciente, perché è lì che stanno i sentimenti, è lì che sta l’intimità, è lì che sta l’amore. Anche a costo di dover scavare nelle fragilità, nelle insicurezze, nella salute fisica, nei rapporti di potere, cadere e doversi fidare per poter tornare più forti.
Phantom Thread è un film romantico, ma non spegne gli occhi di fronte all’amore: lo giudica, lo fa maturare, lo mette in scena attraverso fasi, quasi fosse un flusso di stagioni. Lo mette in discussione lasciandogli tutto il tempo di compiere un percorso, messo in campo da minimi dettagli o, per la precisione, da piccole e raffinate scelte d’immagine, di punto di vista, di montaggio audio, di poetica, senza stravolgere una narrazione che merita la complessità e la tenerezza del minimalismo. La messa in scena di Paul Thomas Anderson è sontuosa, superbamente barocca eppure rigorosa e misurata, fatta di effusivi movimenti di macchina che volteggiano in una continua danza di soggettive e scalinate, di dettagli di straordinaria eleganza e di punti di vista, di fluidità e di auto in corsa, ma sa tornare al classicismo dei campi e dei controcampi, alle profondità di campo come profondità dell’anima e a mirabili inquadrature fisse incorniciate dalle porte quando è il momento di fermarsi per riprendere fiato. Fra i toni grigi e bluastri di una fotografia polverosa e i colori caldi dei tessuti opachi, Il filo nascosto è, forse prima di tutto, un monumento alle arti dal metro alla penna, dalle forbici alla macchina da presa con tanto di straziante dedica finale a Jonathan Demme, passando per i boschi e per le padelle sul fuoco in cucina. Ma non è solo questo: in una società della moda che non potrebbe essere più diversa di quella rappresentata dal decisamente meno sapido Refn in The Neon Demon e in una velenosa cena finale che, a distanza, mette ancora una volta in luce tutti i limiti di Sofia Coppola e del suo L’inganno, Paul Thomas Anderson innesta in Phantom Thread un trattato sui rapporti di potere, sulla fragilità umana e sulla forza sconquassante dei sentimenti. Il suo è un film che dichiara l’impossibilità di controllare l’amore e che al contempo, al contrario, urla a gran voce la necessità di farlo quando questo viene represso, dissimulato, rinchiuso in uno scrigno che ogni tanto ha bisogno di essere riaperto, spolverato, coccolato. In una struttura narrativa che racchiude in sostanza i rapporti umani di Joseph Losey nelle eleganze claustrofobiche di Alfred Hitchcock, Il servo incontra Rebecca sulla scala curva de Il sospetto, mentre la centralità della lussuosa casa/laboratorio dalle pareti color crema apre a una costante ambiguità dei rapporti di coppia e della coscienza. Ma, al di là delle sue strizzate d’occhio cinematografiche (non solo) al maestro del brivido britannico e all’atmosfera suggerita dalle musiche incalzanti composte e orchestrate ancora una volta dal fido Radiohead Jonny Greenwood, Phantom Thread, ennesimo film straordinario di uno dei cineasti più indispensabili della contemporaneità, non è un thriller, non è un giallo, non è un melodramma, e non è nemmeno una commedia, per quanto non manchino momenti di arguta e irresistibile comicità. Phantom Thread è tutto questo ed è molto di più: è cinema personalissimo e inclassificabile, espressivo e sublime, magnetico e avvolgente, acuto e stratificato, elegante e seducente, carico di possibili livelli di lettura nella sua ben precisa scelta di evitare tesi e messaggi ben precisi. È un film carico di suggestioni, carico di ambiguità, carico di inquietudine, carico di poetica, carico di momenti di cinema purissimo. Basterebbe la prima volta in cui Woodcock si sente male, resa miracolosa da Daniel Day-Lewis, dal suo sguardo realmente sofferente, dalle sue quasi impercettibili smorfie, dai suoi tremolii nella voce. Oppure si potrebbe citare il sostanziale dialogo muto fra Woodcock e Alma, ormai marito e moglie, quando lo stilista la va a prendere a una festa di capodanno alla quale sa benissimo anche lei che non sarebbe dovuta andare. Non serve parlare, basta guardarsi, basta ascoltare i rispettivi silenzi, basta respirare insieme, ancora una volta, smettendo di respingersi, smettendo di sfuggirsi. A costo di (dovere/volere) aprire ancora una volta la bocca, di mandare giù il boccone che ormai si sa benissimo essere avvelenato, e di lasciarsi andare ancora una volta. Aspettando impaziente la prossima, a sorpresa, o forse no. Buon appetito Reynolds Woodcock, buon appetito amore mio!
Marco Romagna, Nicola Settis