Ogni nuovo film della Pixar è un film-evento. Quando uscì Up nel 2009, tutti, bambini e adulti, si riunirono a piangere insieme per i 10 minuti che verso l’inizio narravano la vita del protagonista Carl Fredicksen, con un ‘montage’ estremo atto a raccontare una settantina d’anni in un colpo solo. Similarmente, l’anno successivo Toy Story 3 accese la creatività e i bambini interiori degli spettatori dell’originale Toy Story dando loro un motivo in più per amare l’animazione, riconnettendosi con l’infanzia e con l’amore passionale per il gioco e per l’inventiva. Inside Out, nel 2015, con la propria complessità linguistica e morale forse inadeguata a buona parte dei bambini, era invece, per gli adulti, un punto d’arrivo fondamentale per l’animazione: una digitalizzazione formale dei procedimenti mentali, con molteplici finezze, gag umoristiche geniali e un lungo momento epico-drammatico sull’idealizzazione dell’amico immaginario. E si arriva, in ultima istanza, a Coco, che è un film sorprendentemente politico, forse per la prima volta nella storia della casa di produzione d’animazione più amata dalla critica mondiale. Sì, volendo anche A bug’s life, con la sua ostentazione giocosa dei contenuti de I Sette Samurai di Kurosawa, e il succitato Up potevano inserire, tra l’esistenziale e il goliardico, dei punti di vista politici stretti; ma Coco è proprio un film che non poteva che uscire nel 2017 – e dunque ci pare giusto che sia tra le ultime recensioni che mettiamo su questo sito in questo complesso anno. Con Trump eletto alla presidenza, la cosa più anti-MAGA fattibile è proprio quello che Coco si pone di proporre dai suoi primissimi istanti: una storia pura, priva di esplicitazioni politiche, semplicemente sincera nella propria connessione con il presente (e con il passato, ovvero la tradizione), incentrata interamente sulla sfera semantica e visiva del Messico. Senza porre muri, senza porre distacchi, anzi inserendo nel linguaggio, e persino nel doppiaggio in italiano, molti termini intraducibili dello spagnolo, come ‘Huarache’ o ‘Alebrije’. Il protagonista Miguel è un bambino appartenente all’«unica famiglia messicana che non ama la musica», per colpa di un trisavolo, padre della bisnonna di Miguel che si chiama, appunto, Coco, che ha abbandonato la famiglia per dedicarsi interamente al proprio sogno: diventare un chitarrista di successo. Miguel, tuttavia, ha una passione sfegatata per la musica, per la chitarra e, più esplicitamente, per il suo idolo, Ernesto De La Cruz, una specie di mix tra Elvis Presley e Santana morto tragicamente schiacciato da una campana durante un concerto. Dopo aver scoperto, durante il ‘Día de Muertos’, che De La Cruz è proprio il padre di Coco, Miguel scappa dalla famiglia e ruba la sua chitarra dal suo mausoleo, ma una maledizione lo trascina nel mondo dei morti, dove incontra i suoi antenati, che lo riconoscono perché, sotto forma di fantasmi-scheletro, lo incontrano ogni anno nei cimiteri proprio al Día de Muertos. Può tornare a casa solo con la benedizione di un parente, ma nessuno dei suoi avi riesce a perdonare la decisione di Miguel di dedicarsi alla musica. Il bambino dunque parte per un viaggio alla ricerca di Ernesto De La Cruz, insieme allo scalcagnato fantasma Hector, uno dei più complessi e commoventi personaggi della Pixar, che ha un’enorme paura di essere dimenticato perché nessuno si ricorda di lui nel mondo dei vivi, e al cane Dante.
È difficile confrontarsi con un cartone animato della Pixar, per svariate ragioni. Una di queste è il fatto, evidenziato da un amico della redazione nella propria tesi di laurea, che la Pixar è una casa di produzione con una funzione autoriale che è distante dalle delineazioni singolari dei registi che vi lavorano (poco importa, insomma, che il regista Lee Unkrich sia anche stato regista di Toy Story 3; dietro Coco c’è un lavoro visuale stratificato molto più simile a quello fatto da Andrew Stanton in Wall•E o da Pete Docter in Inside Out, per come è trattata l’idea dell’ingresso in un mondo distante da quello “reale”, costruito nel minimo dettaglio come creando un nuovo realismo fantastico e poetico). Un’altra è il fattore del sottotesto, dato e considerato che spesso il tema dei film della Pixar non è solo quello che sembra evidenziato dalla narrazione ma un altro più sottile, e per trovarlo la cosa migliore è fare paragoni con altri film della casa di produzione: si può vedere come per esempio Inside Out e Il viaggio di Arlo siano usciti nello stesso anno e abbiano un po’ l’uno la funzione di controcampo dell’altro, con il primo come esplicito discorso sulla necessità della tristezza e il secondo come ben più implicito discorso sulla necessità della paura. In egual misura, la funzione retorica di Coco è sicuramente quella del legame con la tradizione e con la famiglia («la famiglia è la cosa più importante», viene detto molteplici volte), ma la morale, se così si vuole dire, è più vicina a una valorizzazione del ricordo, della memoria, dell’impronta che possono lasciare gli esseri umani per i posteri, tema chiave di tutto il cinema, se vogliamo, in quanto mezzo attraverso il quale possono essere messi in scena i lasciti di persone e individui fittizi e non. E da questo punto di vista un altro film d’animazione, ben più adulto e difficile, con la stessa tematica può essere It’s such a beautiful day, capolavoro di Don Hertzfeldt del 2012 che mischia l’animazione a mano degli ‘stick men’ con l’estetica del New American Cinema. Dove, lì, il protagonista Bill diventava faccia stessa dell’idea di memoria, qui è la Coco del titolo a diventare manifestazione delle potenzialità del ricordo: la demenza senile, simil-Alzheimer, che la blocca, diventa, sul finale, chiave per il raggiungimento di un lieto fine puro. Non è un caso se i titoli di coda si concludono non con la solita mini-sequenza comica, alla quale la Pixar ci ha abituato in particolare con gli ultimi sforzi cinematografici di loro produzione (era memorabile quella di Monsters University), bensì con un collage di fotografie reali di parenti e amici (e animali domestici!) che le persone appartenenti alla troupe del film non intendono dimenticare. È un film che funge come rituale di accettazione della morte e di esaltazione del passato, ma non nel senso retrogrado e conservatore del discorso – la musica difatti funge come linfa di una vitalità atta a superare il passato. Esaltare il passato significa ritrovare il desiderio di una sua comprensione, attraverso le immagini e lo specchiarsi nelle lacrime del Sé.
Da un punto di vista più banale di costruzione di un mondo, il lavoro di Coco rimane comunque geniale. Tanto è realistico, per quanto convenzionale, il Messico, altrettanto è fantastico e inventivo il mondo dei morti, costruito democraticamente per strati e caste. Colorando i demoni ‘Alebrijes’ con una funzione quasi psichedelica, magari il lavoro d’animazione nasconde l’assenza di una cura per il dettaglio paragonabile a quella fatta per Sully in Monsters & Co., in cui ogni pelo del mostro era stato costruito e animato separatamente rispetto a tutti gli altri; tuttavia quello che sembra importare di più in Coco è il movimento umano, che di per sé è il fattore di partenza del meccanismo-cinema. E il film, di per sé, non sarà un capolavoro assoluto o un punto di non ritorno per il cinema tutto, come sono stati alcuni film della Pixar in passato, che hanno segnato irrimediabilmente la storia dell’animazione e dell’inconscio collettivo. Ma non ci pare giusto chiamarlo un film minore per la sua linfa politica e la sua sincerità, che deriva tutta dalla sceneggiatura del co-regista e storyboarder Adrian Molina, che riesce a donare almeno due momenti di pura emotività in cui le lacrime non possono che sgorgare. È un reale ‘altro’, ma rimane reale. Anche se è animazione. Perché c’è il cuore, oltre la (sempre sorprendente) tecnica. E tanto basta.
Nicola Settis