Per capire il mondo bisogna vivere il mondo. Klotz e la Perceval, o, se vogliamo, il video e l’audio, hanno avuto l’intuizione semplice, non innovativa ma giustamente intensa, di intendere la loro visione cinematografica del mondo dell’immigrazione in Francia (Calais, raccontata anche da Sylvain George in Qu’ils se reposent en revolte), senza separare lo sguardo, senza le immedesimazioni esterne e ipocrite di Rosi in Fuocoammare (specie quando arriva la polizia) e senza l’ossessione per l’estetica di Russell in Good Luck. Il cinema diretto, del resto, vuol dire esattamente questo, e lo vuol dire dai tempi di Wiseman e di Grifi e, non per ultimo, di Jean Rouch. Qualche domanda fuori campo si sente, qualche interazione tra personaggio e cinepresa c’è, ma non è quello che importa. Il nucleo di L’héroïque lande – La frontière brûle, giunto con il suo doppio titolo – già anticipazione delle due distinte anime, descrittiva e umana, che pervaderanno il film – a illuminare lo schermo dell’Oberdan di Milano in occasione di Filmmaker Festival 2017, è la percezione di un altro sguardo attraverso quello della cinepresa: quello di Klotz/Perceval è un film-fiume, come i documentari di Wiseman o anche, volendo, di Lanzmann, che con la sua portentosa durata di quasi 4 ore ammalia con una serie di immagini poetiche in cui però, a riempire lo schermo, non sono né l’immaginario né la poesia, bensì l’onestà e la realtà. Non vengono “fatti” discorsi, ma vengono “mostrati” discorsi, e non vigono l’individualismo e l’antropocentrismo, perché non c’è spazio per ciò che può essere definito “concettuale” o idealistico o filosofico. C’è spazio per gli uomini e per il loro sogno di ricominciare una nuova vita al di là della Manica, ci sono i loro tentativi quasi quotidiani di entrare in Inghilterra, e soprattutto c’è la convivenza di Klotz e Perceval con loro, c’è la condivisione dello spazio e del tempo fra cineasti e uomini e donne rifugiati, e c’è la progressiva trasformazione di questi ultimi da oggetto a vero e proprio soggetto (non solo) cinematografico, con l’estetica che lascia spazio all’urgenza della documentazione in diretta, con le astrazioni dell’immagine che prendono sempre più corpo corpo nell’incertezza quotidiana di chi mai smette di sperare. L’héroïque lande – La frontière brûle è cinema come atto di resistenza (non necessariamente settoriale) e di resa poetica dello spazio filmico dell’uomo. In un mondo in cui tutto può essere percepito attraverso gli schermi, le immagini riflesse permangono come fantasma in miniatura di ciò che può esserci o non esserci; attraverso un video su di un cellulare, gli immigrati africani si confrontano con i volti di persone che hanno conosciuto e che non ci sono più, in un campo-fuoricampo con una realtà filtrata digitalmente. La luce abbaglia, ma è la voce ad assordare. Una ragazza canta Diamonds di Rihanna con la sua voce che si distorce, perché anche la musica pop rimane nella percezione. E poi può esplodere una danza, una musica extradiegetica che accompagna nella realizzazione di un’illimitatezza delle potenzialità umane. Un rifiugiato politico scappato dall’Afghanistan o una sedicenne scappata di casa alla ricerca di un posto nel mondo a causa di una pelle che la società considera del colore sbagliato, nella “Giungla”, sono la stessa cosa, la stessa persona: e a questo punto è giusto unirsi, toccarsi, guardarsi. Collettivizzarsi e aiutarsi a vicenda, uniti, e quindi forti anche di fronte alle ingiustizie, anche di fronte ai tentativi andati a vuoto, anche di fronte al fuoco che devasta mezza “Giungla”.
Progressivamente, la macchina da presa, il microfono e, perché no?, pure il programma di montaggio si allontanano sempre di più da una resa estetica ed estetizzante del mondo rappresentato, anche a costo di sporcare l’immagine, di perdere il fuoco, di abbandonare un suono comprensibile mentre deflagrano i rumori, il vento, le fiamme, le urla. Umanamente ci si avvicina sempre di più agli immigrati, vittime del mondo, non spegnendo mai l’occhio della cinepresa ma liberandoli sempre più dalla scomoda posizione di vittime anche del cinema, conquistando progressivamente la loro fiducia, passando diversi mesi insieme a loro, rendendoli sempre più sinceri e a proprio agio pure di fronte all’occhio meccanico. Il cinema non li salverà, non può farlo, ma lascia un’impronta al posto loro, dà spazio alla loro sofferenza, in un certo senso soffre lo stesso freddo e lo stesso caldo, la stessa fame e la stessa sete, la stessa disperazione e la stessa speranza, fino a un’identificazione completa e totale. I movimenti di macchina che si fanno a volte incerti e i problemi tecnici di un audio registrato dimenticando di apporre qualche filtro sul microfono e di impostare i gate sulle frequenze “rumorose” rinforzano in un certo senso il film, poiché ne esplicitano la sincerità attraverso una continua dicotomia contrastante tra ciò che viene mostrato e ciò che è, tra ciò che lo spettatore già sa, o per lo meno immagina, e ciò che lo spettatore necessita di vedere proseguendo nella fluviale visione. L’héroïque lande – La frontière brûle è come una sfilata di disadattati che provengono da tutti i paesi del mondo, sempre per ragioni diverse, per fuggire o per rinascere, ma tutti delusi dall’inferno in cui sono collocati: siano essi siriani, afghani, eritrei, maliani o libici, i ripetuti tentativi di varcare il confine sono fallimentari. C’è l’Inghilterra, che è un sogno, una specie di gnomo in fondo all’arcobaleno verso cui tutti vorrebbero tendere, ma rimane oltre le fiamme della desolazione del presente. Vengono raccontate vendette trasversali e di morte, di guerra e di viaggio, vengono fatte interviste frontali che mettono allo stesso livello ognuno tra gli esseri umani che abitano nella “Giungla” esaltando l’autodeterminazione individuale, mentre ogni singolo giorno viene cotto il pane azzimo fra impasti, cuscini e forni con il fuoco in fondo al pozzo, e nel corso dei mesi incendi e polizia decimeranno sempre più la “Giungla”. Tra confessioni in disparte e fuochi comunitari, viene creato uno spazio anche per una frangia decisionale nel rapporto tra personaggio e regista, o tra i personaggi stessi. La musica extradiegetica, di tutti i generi dal rap alla musica classica, è sempre usata con sapiente lirismo, e solo in una macrosequenza centrale molto importante può scadere un po’ l’effetto drammatico per lasciare spazio a un ‘pastiche’ che poco ha da condividere con il senso dell’operazione di Klotz. La lingua è stentata, a partire dall’inglese e dal francese, in una specie di torre di Babele in cui la comprensione sovrasta la mera chiusura del dialogo in sé: esprimersi, attraverso il racconto, è lo spiraglio verso la libertà, non tanto perché sia una libertà effettiva, quanto perché dà il senso di un lascito di memoria, di un abbandono di uno spettro del ricordo attraverso la cinepresa stessa. Tanto che, in diversi momenti di lingue africane incomprensibili per qualsiasi occidentale, mancano i sottotitoli, perché non è la traduzione del contenuto dei discorsi il punto, ma l’autodeterminazione di chi continua a parlare i propri idiomi anche dopo aver perso, probabilmente per sempre, la propria terra. Questo è essere nel cinema, questo è (continuare a) vivere nel cinema. Dopodiché, anche il sogno cade, dopo un’immagine fissa della “Giungla” a pezzi, ormai sull’orlo dell’inesistenza, con una telefonata a uno che ce l’ha fatta ad andare in Inghilterra, ma non ne è valsa la pena: c’è la Brexit, tutti si trattano male, piove sempre. Tutto il mondo non è paese, ma ha la potenzialità di esserlo? È questo il dilemma che viene posto nel finale che va sempre più verso l’astrazione, accelerando i palleggi di una giocosa pausa di calcetto sulla spiaggia, dirigendosi verso il ballo solitario di un ragazzo che cerca di trovare un’identità creativa mentre il mondo (una nave) scorre dietro di lui, abbandonandolo a se stesso e a una ricerca che probabilmente non vuole compiere in totale autonomia, mentre in sottofondo risuona The Stranger Song del sempre compianto Leonard Cohen.
C’è un’unità d’intenti con La goumbé des jeunes noceurs di Jean Rouch, con il ballo come espressione di umanità che supera ogni limite e ogni separazione, ma questo è un ballo solitario, che esprime provvisorietà, che non cerca esplicitamente la condivisione ma che anzi esplicita l’incapacità tragica di trovare un controcampo, di trovare uno spazio, filmico ma soprattutto reale. C’è un litigio tra uomo e donna che è animato come quello di Bitter Money di Wang Bing ma, a differenza di quello, non dà spazio a una riflessione sul mezzo e sulla veridicità di esso, bensì gioca semplicemente su quello che può essere o non essere un dialogo nel momento in cui esiste ma viene filmato. Non c’è cerebralismo di alcuna sorta, semplicemente la decisione di raccontare qualcosa che ha avuto (e ha) un ruolo nel fluire del mondo. Non a caso nei titoli di coda c’è un ringraziamento a Lav Diaz, che forse tra gli autori del cinema recente è quello che più ha avuto coraggio formale nel mettere in scena in maniera anticonvenzionale ma purissima la lotta del popolo e i drammi di un paese. Ci sono probabilmente dei momenti di stanca, per i quali il film può dare la sensazione di essere decisamente troppo lungo, ma forse è un’illusione; la prolissità ha una sua funzione, come anche molti dei film degli autori che abbiamo appena nominato (Wang e Diaz): basti prendere come esempio Crude Oil, l’installazione filmica che Wang ha fatto per descrivere la vita lavorativa nei pozzi di petrolio del deserto del Gobi nel Nord della Cina, che con le sue portentose 14 ore di durata non rappresenta certo una visione leggera, ma lascia allo spettatore la possibilità di distrazione e di autodistruzione per creare immedesimazione con le potenzialità drammatiche e sfaticanti di una vita che lo spettatore non percepisce come “vita”. La “noia” e la ripetitività fanno parte della vita e della sofferenza di chi è nella “Giungla”, e forse replicarla su uno schermo è l’unico modo possibile per rispettare fino in fondo gli uomini che quotidianamente la vivono. I loro sono ritmi vitali distanti da quelli che in genere si possono provare sulle poltrone del cinema (per quanto 225′ su quelle del milanese Spazio Oberdan, note per la loro scomodità, siano probabilmente paragonabili ai lavori forzati), e perciò necessari da provare anche di fronte a uno schermo. Per crederci un po’ di più, in una speranza, non necessariamente per viverla ma per avere la possibilità di vederla insieme a quelli che la dovrebbero percepire molto più di noi e molto prima di noi. Senza odio, semplicemente guardandosi negli occhi, e continuando a ballare, magari insieme, magari insieme al mondo che li segue.
Nicola Settis