“In tutti i miei film, e con tutti i grandi attori con cui ho lavorato, Bruno S. era il migliore. Non c’era nessuno che si avvicinasse quanto lui. Nel senso, nella sua umanità, e nell’intensa profondità della performance, non c’è mai stato nessuno nemmeno paragonabile”
Werner Herzog
Si chiama Stroszek, ma potrebbe tranquillamente intitolarsi Schleinstein, o più semplicemente S. Proprio come Bruno, musicista, artista di strada, paziente psichiatrico, e poi attore dall’anima candida e impaurita. Werner Herzog lo aveva visto in un documentario del ’70, e immediatamente aveva visto in lui, nel suo volto unico, nel suo sguardo sbigottito e nella sua poetica tristezza in fondo agli occhi, il perfetto Kaspar Hauser dell’omonimo Enigma. Bruno Schleinstein, o meglio Bruno S., era un uomo puro, cresciuto a traumi, istituti di correzione e ospedali, un uomo che ha conosciuto la reclusione proprio come Kaspar Hauser, autodidatta musicale proprio come Kaspar Hauser, e proprio come Kaspar Hauser alla costante scoperta del mondo con la stessa meraviglia e innocenza di un bambino. Ma anche, e forse soprattutto, con la stessa disillusione che tre anni dopo sarà di Bruno Stroszek. Dopo L’enigma di Kaspar Hauser (1974), Bruno S. avrebbe dovuto interpretare anche il Woyzeck che Herzog realizzerà nel ’79, ma il regista bavarese, dopo aver già promesso la parte a Bruno, si convinse che Klaus Kinski con la sua pura follia sarebbe stato un protagonista ancora migliore. Per compensare Bruno S., e per non ferire la sua straordinaria sensibilità, Herzog scrisse, dice la leggenda in soli 4 giorni, la sceneggiatura di Stroszek plasmandola ancor più di Kaspar Hauser sulla vita di Bruno, sulla sua realtà quotidiana, sulla sua musica, sui suoi complessi, sulle sue vulnerabilità, sulle sue difficoltà psicologiche, economiche e sociali. Herzog creò per Bruno S. un vero e proprio alter ego, scrisse il film per lui e su di lui, gli affiancò come unica professionista la fassbinderiana Eva Mattes e decise di realizzare il progetto subito, addirittura due anni prima di mettersi al lavoro con Kinski. Stroszek nacque quasi all’improvviso, con una troupe estremamente ridotta, con il solito budget risibile, ma con il massimo splendore della lingua filmica herzoghiana, cinema purissimo che da sempre annulla i confini fra finzione e documentario, mescola elementi, mostra la realtà nella messa in scena, e nel frattempo innesta elementi di puro racconto di fantasia nella documentaristica. La casa berlinese di Bruno Stroszek è il vero appartamento di Bruno S., così come suo è il pianoforte, comprato con il compenso ricevuto proprio per L’enigma di Kaspar Hauser, suo (come per ogni personaggio) è il nome, suo è lo spaesamento, suoi sono i sogni, sua è la frustrazione, sua è la necessità di esprimersi con la musica ancor prima che con la parola. E sue sono la dolcezza, la sincerità, l’intimo sgomento, l’amarezza.
Leggenda vuole che Ian Curtis, leader dei Joy Division morto suicida a soli 23 anni, nelle ore immediatamente precedenti al suo ultimo atto avesse ascoltato a ripetizione l’album The Idiot di Iggy Pop e guardato proprio Stroszek, forse perdendosi negli stessi abissi in cui sprofonda il protagonista, e trovando la stessa unica e drammatica via d’uscita. E in effetti Stroszek, scelto dalla guest director del 35mo Torino Film Festival Asia Argento all’interno della sezione retrospettiva Amerikana e proiettato al Cinema Massimo in una perfetta copia 35mm straordinariamente luminosa e granulosa nei suoi colori cupi e asfittici, è probabilmente il film più amaro e lancinante di Werner Herzog, atroce eppure sublime, spietato eppure di sconfinato trasporto umano. È lo sguardo di un europeo di fronte a quegli Stati Uniti nei quali il Sogno di prosperità e giustizia stava ormai definitivamente diventando un ricordo, se non addirittura un incubo. Bruno, appena scarcerato nella Berlino di metà anni Settanta, è estroverso eppure timido, sognatore eppure insicuro, parla di se stesso solo in terza persona e spesso premettendo l’articolo al suo nome, soffia nella tromba prima di annunciare al mondo la sua libertà e si ritrova per le strade a suonare in contemporanea la fisarmonica e il glockenspiel. Eterno bambino innervato di traumi infantili, Bruno è affezionato ai suoi oggetti e alla sua abitudinarietà, parla con il vicino Sheitz che ha badato alla sua casa durante l’arresto della possibilità di emigrare, e puntualmente si innamora di Eva, puttana maltrattata dai papponi, decidendo di ospitarla e proteggerla a costo di tirarsi addosso le loro angherie. La regia di Herzog, con piglio documentaristico, stringe asfissiante sui protagonisti, li chiude costantemente all’angolo, portando sullo schermo le umiliazioni subite nel Vecchio Continente dall’uscita dal carcere fino alle ripetute visite dei violenti protettori, con la rottura della fisarmonica, con le percosse, con Eva ricoperta di immondizia, con Bruno costretto in ginocchio davanti al pianoforte. È il momento di partire, di fuggire, di seguire il Sogno americano, di farsi una nuova vita nelle sterminate praterie del Wisconsin, di fronte alle quali anche la macchina da presa di Herzog è costretta ad arretrare, a lasciare più respiro, ad allargare gli orizzonti. Ma il Sogno Americano – il lavoro, il prestito facilmente ottenuto, il sentore di libertà – nient’altro sarà che l’ennesima illusione destinata a infrangersi, l’ennesima realtà fittizia e impossibile, l’ennesimo percorso circolare verso il nulla, oppure verso l’autodistruzione, come un furgone con il motore incendiato che gira in tondo, senza bisogno di controlli, in attesa che le fiamme divampino fino a consumarlo. Bruno, volenteroso come meccanico mentre Eva lavora come cameriera e Sheitz conduce singolari esperimenti sul magnetismo animale, pensava che l’America avrebbe aperto immediatamente e senza dubbio le porte della ricchezza e della felicità, della libertà e del successo, e invece si ritrova ben presto in crescenti difficoltà economiche, incapace di pagare il mutuo dell’enorme roulotte-prefabbricato che ha eletto a dimora, pressato dalle banche che ben presto pignoreranno ogni suo amato avere, lasciato da Eva che ricomincia a prostituirsi fino a decidere di cercare nuove avventure a Vancouver scappando con due camionisti, e infine rimasto pure senza Sheitz, arrestato per una rapina a mano armata dal bottino di “ben” 32 dollari con i quali i due volevano “vendicarsi dei complotti”, e invece si ritrovano affamati e assetati di birra a fare la spesa proprio di fronte al negozio rapinato.
Sta tutto nelle simbologie stranianti e straniate, nell’auto che gira a vuoto in un piazzale in attesa di essere divelta dal fuoco già a bordo, nell’asta ironicamente cantata su basi yankee con la quale la banca si prende e rivende tutta la vita di Bruno, nel girare sempre uguale sulla fune della seggiovia, e poi nella gallina che balla, nel coniglio che cavalca un’auto dei pompieri giocattolo, nell’anatra che suona i tasti del pianoforte. Stroszek, nei suoi percorsi circolari, nella sua poetica d’empatia sentimentale, nella sua etica inossidabile, nel suo pessimismo e nella sua profonda amarezza, racconta la distruzione del Sogno americano come l’ennesima spersonalizzazione, come l’ennesima trasformazione in automi, in numeri, in ingranaggi di un sistema spietato nel quale l’individuo non conta più. Conta solo che la banca recuperi i crediti prestati, quei soldi che “ci servono proprio”, con l’ipocrisia di chi si mostra affranto perché “odia portare via la casa alle persone” ma poi non si pone il minimo problema a farlo, magari continuando a irriderle nel surrealismo del banditore d’asta country. Fino a quando la casa-roulotte non verrà portata via, lasciando il vuoto del prato e riportando Bruno a quella provvisorietà claustrofobica, senza spiragli e senza più speranze. Rimane da solo, Bruno Stroszek. Senza un centesimo, senza una casa, senza una donna, senza un amico. Solo, con le sue lattine di birra, con il suo scoramento, con il suo fucile. Quello che subisce non è, al di là delle sue umane e depresse reazioni, un vero complotto nei suoi confronti, è semplicemente l’ineluttabilità di una società capitalistica che si incancrenisce, e che trascina nel suo gorgo chiunque non riesca o non voglia starle dietro. Specialmente i puri, gli innocenti, i buoni. Bruno lavora e fatica, ma questo non basta per pagare i conti, non basta per permettersi la televisione, non basta per vivere dignitosamente, non basta per sentirsi a casa in un luogo del quale a stento si capisce la lingua, e nemmeno si prova a parlarla. E allora tanto vale spendere ancora una volta tutto in birre, e poi magari entrare in quel luna park indiano alle porte della città, accenderne le attrazioni, salire sulla seggiovia, sparire dietro al dosso. Fino al risuonare, inevitabile e agghiacciante, dello sparo. Non c’è alcuna ironia nel furgone infuocato che gira in tondo, come non ce n’é negli assurdi animali costretti dalla società e dalle circostanze, proprio come Bruno Stroszek, a comportamenti lontani dalla loro natura. C’è solo una profonda amarezza, c’è la devastazione intima di Werner Herzog, c’è quella di Bruno S., c’è quella di una società che continua a girare in tondo fino all’autodistruzione, ormai incapace di andare da qualsiasi parte, in qualsivoglia direzione. Non c’è, al di là del titolo italiano La ballata di Stroszek, alcun giro di danza, c’è solo la devastazione, c’è solo la sconfitta, c’è solo il sorriso ipocrita di un’America che continua a fingere opulenza, giustizia e libertà, che sa vendersi bene come un’attrazione, che sa continuare a ingannare, colpire e umiliare come e più dell’Europa. Ma non c’è solo questo, nel film di Werner Herzog. Stroszek è un film profondamente politico sulla distruzione del Sogno Americano masticato dalle fauci del capitalismo, ed è al contempo è il film di un amico per un amico, un film dal quale emerge, cristallina, l’anima candida di Bruno S., la sua vita, la sua fragilità, il suo scoramento. Il suo infinito cuore, che da solo basterebbe a fare un capolavoro sublime e straziante.
Marco Romagna