Bushwick, prima di essere il titolo del film, diretto da Cary Murnion e Jonathan Milott con come attori protagonisti il wrestler Dave Bautista e Brittany Snow, passato a Cannes nella Quinzaine e poi al Trieste Science+Fiction Festival, è un quartiere di New York, noto, come la Jackson Heights osservata nel 2015 da Wiseman, per la sua varietà multiculturale e come centro nella cultura hipster e universitaria newyorchese. Nel film, tuttavia, Bushwick è soprattutto un teatro bellico. In un contesto fantapolitico che ha principalmente i ritmi di un melodramma d’azione, Bushwick ipotizza una situazione poi non così tanto irreale, in cui viene invocata la legge marziale per motivi ignoti all’intera popolazione statunitense, e dei terroristi completamente rivestiti di nero giungono nel quartiere, irriconoscibili, a far fuori centinaia di cittadini innocenti. Quello che importa è dunque la resistenza popolare, che gli invasori non si aspettano minimamente – non in quantità così grandi. Lucy (Brittany Snow), vera protagonista del film, approda a Bushwick, dove abita da sempre, insieme al ragazzo José per un breve e tranquillo periodo di vacanza a casa della nonna; salendo le scale della metropolitana, sentono un’esplosione, e José, incuriosito, esce nel mondo reale, finendo immediatamente ammazzato e abbrustolito. Come nella logica tradizionale dei film d’avventura, soprattutto nel caso di quelli che si consumano in un lasso di tempo limitato (una mezza giornata), il dolore del lutto dura poco e lascia presto spazio all’azione dura e pura. Lucy scappa passando per disavventure di ogni tipo, venendo ammanettata e rischiando di essere violentata da due afroamericani, ma al suo salvataggio giunge Stupe (interpretato dal wrestler Dave Bautista, che da My Son My Son What Have Ye Done di Herzog a Blade Runner 2049 passando per i due capitoli sinora usciti de I guardiani della galassia sta maturando sempre di più una carriera da interprete distante dalla semplice fisicità per cui è diventato popolare), un ex-Marine ed ex-Coroner militare diventato inserviente, che usa tutta la propria forza muscolare per divenire un vero e proprio punto di riferimento fisico nella lotta contro il nemico comune, un’anonima e minacciosa presenza che rimane quasi sempre fuori campo e sfocata, come antagonista universale della libertà dell’american dream. Murnion e Milott, sia chiaro, non mettono in scena un’apologia del sogno americano, bensì si dedicano con grande rabbia a destrutturarlo, usando la scenografia del melting pot newyorchese per mettere in risalto cosa unisce e cosa divide il popolo. Tra i “buoni”, vi sono preti, rabbini, gang di spacciatori, anziani, e giovani tossicodipendenti, tra i quali la sorella di Lucy, Belinda, interpretata da Angelic Zambrana, unica spalla comica del film, per quanto parziale.
Nell’adrenalina della guerra, tutti diventano ‘freaks’ con uno scopo comune, racchette, mazze da baseball e estintori diventano armi, il flusso degli eventi e della vita diventa un ambaradan di violenza senza conclusione e senza scopo. Bushwick rende quest’effetto attraverso lo stilema registico più abusato del cinema contemporaneo, il piano sequenza, senza dubbio in tempi recenti popolarizzato, in dimensioni e in quantità differenti ma con la stessa conseguenza, da Gravity (2014), Birdman (2015) e Il figlio di Saul (2016). Tra questi, probabilmente quello più vicino a Bushwick è Birdman per come sono gestiti gli spazi, virtuosisticamente passando dalla fotografia in interni a quella in esterni senza imprecisioni, ma ironicamente in Bushwick la scelta è più coerente poiché permette di immergersi e di penetrare in un mondo in cui la confusione deve regnare sovrana, molto più che nel senso di nevrosi che Iñàrritu ha creato attraverso il proprio giochino postmoderno su Hollywood e sul mondo del teatro. La macchina da presa si sposta per spazi angusti e scalinate, spesso mettendo in campo pareti vuote e scalini ma altrettanto spesso soffermandosi sulla carne martoriata, sulle ferite da risanare. Per quanto il piano sequenza sia una scelta furba e ormai vicina, anche troppo, al gusto popolare, Bushwick spesso lo sfrutta bene perché semanticamente è la maniera migliore per comprendere la follia della situazione immedesimandosi in Lucy e Stupe, tanto che anche le poche, brevissime sequenze in cui il punto di vista si sposta dal loro a quello di comprimari meno importanti, non si sente il peso del cambiamento, e lo spettatore ha il tempo di rimanere focalizzato all’interno dell’alienante gioco al massacro adoperato dalla baraonda sollevata dalle coreografie. Un mero esercizio di stile? È possibile, ma di fronte a determinate sequenze l’esercizio di stile diventa efficace e mozzafiato al punto da creare una dimensione empatica che, altrimenti, lascerebbe spazio alla banalità. Tra queste scene, le più significative sono la guarigione della gamba di Stupe sul tetto della scuola, l’invasione della casa di Belinda, l’entrata nella dimora della madre afroamericana (che ascolta Beethoven mentre suo figlio, nello scantinato, tortura il nemico ascoltando rap), la ricerca del prete nel buio degli scantinati della chiesa, la confessione di Stupe in lavanderia e l’ultima, rocambolesca scena d’azione, all’aperto, di notte, con il nero del cielo che si confonde con il rosso dei fuochi, il giallo dei lampioni e l’azzurro accecante degli elicotteri in una costante esplosione espressiva.
Il punto di vista del cielo è più frammentato, meno liquido, non si muove per piani sequenza ma per scatti, spesso musicati da un’ottima colonna sonora composta dal rapper Aesop Rock, uno dei nomi più interessanti nel panorama contemporaneo del genere. Questo, perché, chi osserva dall’alto non può capire come ci si sente in mezzo al magma della guerra. Perché sì, Bushwick non racconta la guerra ma racconta i suoi ritmi, la sua follia, la sua incoerenza adrenalinica, sospendendo la credibilità in svariate fasi (in particolare quelle dei lutti: come può Lucy piangere la morte del fidanzato e della nonna per pochi secondi e invece passare minuti e minuti sul cadavere di una persona conosciuta poche ore prima?) ma sempre mantenendo un senso del ritmo infernale, con la premente necessità di un momento di pausa, che porta nell’apnea del panico. Chi osserva dall’alto non può arrivarci perché chi osserva dall’alto è il potere che ha creato la situazione. Murnion e Milott hanno composto un film che già appartiene a un filone preciso di cinema politico americano, quello del timore post-elezione di Trump, a cui appartengono, se vogliamo, molti dei film più densamente sociali visti nel 2017 nei contesti festivalieri, inclusi Get Out, Suburbicon, Detroit e se vogliamo anche Ex Libris e First Reformed. È un reale che spaventa, quello della divisione, della segregazione e della secessione, poiché porta al non riconoscere più chi è davvero una minaccia per l’unità degli Stati Uniti. Inizialmente, i protagonisti di Bushwick pensano di ritrovarsi di fronte a terroristi islamici, rievocano la memoria dell’11 settembre 2001 e l’incoerenza delle guerre successive messe in atto da Bush, fantasmi di un passato americano così recente da essere un vero e proprio demone sulle spalle dell’identità nazionale. Ma appena si ritrovano a togliere il passamontagna a un avversario invasore, in una scena di lotta e tortura gestita interamente da Bautista tanto con l’espressività facciale quanto con i muscoli e le coreografie del wrestling (che innescano inutili e stolti gridolini in sala…), i protagonisti devono mettersi faccia a faccia con la realtà: il nemico viene dal Kentucky, è un indipendentista, fa parte di un gruppo di mercenari che intendono piegare Bushwick ai loro piedi per spaventare il Presidente e avere la possibilità di separarsi dalla democrazia più famigerata e potente del mondo. È davvero, questa, l’America? Come può esprimersi la naturale ma innaturale divisione tra cittadini senza portare a un odio talmente assoluto da mietere vittime ovunque?
Tra buchi di sceneggiatura inevitabili, in particolare nell’approfondimento psicologico dei personaggi, Bushwick rimane un interessante e angosciante attestato di una paranoia puramente del nostro tempo, e che forse è destinato a divenire incomprensibile con il passare del tempo e i cambiamenti nella Storia, finendo nel dimenticatoio come film politico, venendo ricordato, se verrà ricordato, solo come film d’azione becera. E negli occhi degli spettatori italiani, la rivolta per strada, sia per la presenza del nemico a viso coperto sia per l’unione e la frammentazione tra il popolo, può ricordare il G8 di Genova, il puro caos dell’ingiustizia, la perdita dell’umanità e la possibilità di riguadagnarla continuando a lottare. Senza dedicarsi a banalità esistenziali e sociologiche che probabilmente non dovrebbero trovarsi nella recensione di un film d’azione, il paragone tra una situazione statunitense odierna e immaginaria e una situazione italiana passata ma sin troppo reale dovrebbe forse farci imparare qualcosa su cosa accomuna e cosa divide il mondo. Poi ci si può divertire a vedere Bautista che mena gente a caso, ma qui, più che mai, l’azione è un pretesto per sondare la realtà. E, con tutti i difetti del caso, impossibili da non notare, forse può già bastare per decretare che Bushwick può non essere bello, ma è sicuramente importante.
Nicola Settis