“41 shots, and we’ll take that ride
‘Cross the bloody river to the other side
41 shots, cut through the night
You’re kneeling over his body in the vestibule
Praying for his lifeIs it a gun, is it a knife
Is it a wallet, this is your life
It ain’t no secret (it ain’t no secret)
It ain’t no secret (it ain’t no secret)
No secret my friend
You can get killed just for living in your American skin”Bruce Springsteen, American Skin (41 Shots)
Sono due le realtà storiche, politiche e sociali in cui è assolutamente necessario contestualizzare Detroit, il nuovo e atteso lavoro di Kathryn Bigelow che trova la prima italiana alla dodicesima edizione della Festa del Cinema di Roma. La prima è semplicemente quella “che si vede” nella rigorosa ricostruzione delle vicende messe in scena dal film, ovvero il 1967 di una Detroit all’apice della segregazione razziale fra tumulti di ribellione afroamericani, scontri, incendi e sanguinaria repressione/rappresaglia attuata da una polizia sfacciatamente sul crinale della criminalità. La seconda realtà invece, che poi è il vero argomento di Detroit, il vero punto focale e di forza del film, il suo reale bersaglio e la sua vibrante urgenza, è quella che rimane non solo fuori campo, ma (subito) fuori dalla sala cinematografica, in quegli Stati Uniti del 2017 che, negli scorsi mesi, hanno freddamente accolto il film della Bigelow. Sono gli Stati Uniti di Trump, della crisi economica mondiale che non passa, dei ghetti, della povertà, del classismo, degli scontri urbani, del colpevole silenzio, della cecità interessata di chi, novello Ponzio Pilato, non fa nulla. Sono gli Stati Uniti di oggi, egoisti e fagocitanti, impegnati in una realtà drammaticamente speculare a quella narrata negli anni Sessanta di Detroit, fatta di razzismo ora serpeggiante e ora dichiarato magari dal Presidente, fatta di violenza e di insoddisfazione, fatta di sangue e di pistole. Fatta di paura quando si vede una divisa, fatta di traumi, fatta di abusi di potere e di violenza sia fisica sia psicologica. È una realtà fatta di cittadini neri crivellati “per errore” con 41 colpi d’arma da fuoco governativa mentre, disarmati, stanno tirando fuori il portafoglio per permetterne l’identificazione, è una realtà fatta di ricatti, di verità insabbiate e di lacrimucce di circostanza per poi ricominciare a comportarsi come prima, razzisti, violenti e dal grilletto facile, magari alle spalle. Senza nemmeno un briciolo di rimorso, senza nemmeno un peso su una coscienza che, evidentemente, necessita di essere risvegliata. Ed è proprio qui che, senza un briciolo di retorica né, per fortuna, di controrazzismo di ritorno à la Spike Lee, entra in ballo Detroit.
Il film di Kathryn Bigelow, necessariamente violento e disturbante almeno quanto il Diaz – Don’t clean up this blood di Vicari, punta esattamente a risvegliare lo spettatore e la sua umanità mettendolo di fronte a (quella che è stata) la verità dura e cruda, senza filtri e senza censure, ben al di là delle (scandalose) assoluzioni per “inammissibilità delle confessioni” nei confronti dei poliziotti/torturatori o del prosieguo tranquillo delle loro vite. Un episodio realmente accaduto nel passato come l’irruzione della polizia più deviata e violenta nell’Algiers Motel di Detroit nella notte del 25 luglio 1967, nel quale il “cecchino” responsabile di aver tirato sulla polizia nient’altro era che una pistola da starter incapace di nuocere e comunque mai trovata, diventa grazie al mezzo cinema il paradigma per parlare di oggi, e probabilmente di ogni tempo. Quella notte di violenza, simbolo con i suoi morti, feriti e traumatizzati dell’intera sommossa di Detroit, assurge a simbolo di qualsiasi abuso di polizia e di qualsiasi guerriglia urbana, di qualsiasi lotta per l’autodeterminazione e di qualsiasi negazione dei diritti, negli Stati Uniti ma non solo. La violenza di Detroit è reiterata, fatta di facce contro il muro e di pugni nei reni, fatta di vestiti strappati e di manganellate, fatta di minacce di morte e di rivoletti di sangue che scendono dalla fronte. È una violenza fisica e verbale, intima e morale, ripetuta come in una spirale la cui funzione cinematografica è quella di creare disagio, fastidio, intimo senso di colpa. La stessa violenza, tanto per traslarla in Italia, del G8 del 2001 e della scuola Diaz, la stessa che si è abbattuta su Uva, Cucchi e Aldrovandi, la stessa che ha ucciso Dax: ogni mondo è paese, e ogni giorno è (già) Storia.
È prima di tutto una questione etica, a muovere la macchina da presa della Bigelow. È un respiro profondamente antirazzista e dichiaratamente umano, ben conscio delle complessità di una situazione di povertà e disperazione. Quella della regista californiana è una dichiarazione d’intenti che emerge già dalle scelte di messa in scena, in quel montaggio serrato d’ansia e di agonia fatto di infiniti punti di vista, in quei cinepugni mutuati direttamente da Ejzenstejn per continuare a shockare lo spettatore, in quella macchina da presa sempre a mano, nervosa e tremolante, documentaristica e accorata, fatta di zoom e passaggi a schiaffo, stretta sui volti degli attori e concitata quanto le vicende messe in scena, come a voler restituire ai suoi protagonisti quella vicinanza e quella partecipazione che le autorità apertamente negano loro a causa del colore della pelle.
Detroit è un film di rivolta e di repressione che sfocia nella rappresaglia, è un film di ragioni di Stato e di ragioni umane, è un film che mette al suo centro la violenza perpetrata sugli innocenti con lo scopo di estorcere loro confessioni, a volte bluffando per intimorire gli altri, a volte premendo davvero il grilletto, per poi magari inventarsi di sana pianta una qualche arma vicino all’uomo appena ucciso così da potersi difendere con la scusa della legittima difesa. È un film dall’appassionata verve politica, dichiaratamente dalla parte dei più deboli eppure capace di equidistanza fra gli errori di ambo le parti; è un film duro, potente, di sciacalli che rubano nei negozi (per fame? per ingordigia?), di guardiani giurati di colore che pur di non pestare i piedi ai bianchi “fino a che non passerà la tempesta” finiscono per essere loro complici contro i propri fratelli, e soprattutto di forze dell’ordine criminali, assassine, portate oltre il punto d’ebollizione dai propri superiori e dalla situazione. Ma Detroit è anche un film, nei suoi sostanziali tre filoni narrativi (rivolta/“macelleria”/processo) e nella sua puntuale caratterizzazione di ogni personaggio coinvolto – dal mondo della musica R&B alla prostituzione, dal veterano del Vietnam malmenato come un criminale alla silenziosa fuga di chi non vuole rischiare ripercussioni – estremamente ambizioso, ostinatamente ambizioso, forse sin troppo ambizioso. Tanto ambizioso da far emergere anche i suoi limiti, i suoi problemi narrativi e contenutistici, la sua tensione a sfilacciarsi.
Se infatti la prima parte di introduzione storico-geografico-politica sulle rivolte del ’67 di Detroit, giocata fra l’animazione e la messa in scena dell’episodio scatenante con la chiusura di un bar senza licenza, fa tutto sommato il suo dovere senza didascalismi, e se la seconda, vero e proprio cuore pulsante del film nel suo fedele resoconto delle violenze dell’Algiers Motel, è per estensione e per potenza, per impegno e per forza disturbante il centro politico e tematico dell’azione, convince decisamente meno il viraggio finale sul thriller (farsesco-)processuale, reso in maniera sbrigativa e tutto sommato superficiale, che vedrà “non colpevoli” le divise responsabili del massacro. Per i limiti narrativi e di scrittura in una struttura fatta di parti che a tratti non dialogano a dovere fra loro, per la mancanza di una qualsiasi presa di posizione sul ruolo del guardiano giurato (troppo) sospeso il kapò e la vittima costretta a comportarsi così dalla situazione, per la mancanza di un qualsiasi istante al di fuori del servizio dei poliziotti/carnefici nel momento in cui un film che è anche sul senso di colpa (o sulla sua mancanza) avrebbe chiamato almeno una sequenza di vita quotidiana con moglie figli e cane, e soprattutto per qualche leggero scivolone nello stereotipo, in testa gli “sbirri buoni” che giungono subito dopo il massacro perpetrato dai colleghi “cattivi” ad aiutare le vittime, quello che sarebbe potuto essere un potenziale capolavoro finisce per essere “solo” un buon film, indubbiamente da difendere per intenti e afflato sociale antirazzista, indubbiamente da apprezzare per una messa in scena che ha la capacità di trascinare in un buco nero soffocante e necessariamente agghiacciante, forte di istanti sublimi al contempo atroci e strazianti, ma in definitiva un po’ troppo ondivago, altalenante, non equilibrato e solido come avrebbe potuto e dovuto essere.
Tutti questi limiti però, pur nocivi per un film così ambizioso di un’autrice così talentuosa, non riescono di certo a impedire a Detroit di portare il Vietnam nel centro dei sobborghi americani, fra incendi e carri armati in strada, fra footage d’epoca che parla dei “negri” sciacalli nei negozi e interventi straordinari richiesti dal governatore del Michigan, fra rivolte e vetrine sfondate, fra sadiche manganellate e spari alle spalle esplosi proprio da chi dovrebbe difendere i cittadini. E, in questo, Detroit rasenta la perfezione tecnica, linguistica, etica e poetica. Già, anche poetica. Perché quello messo in scena è un tumulto senza (più) speranza, che annichilisce, che elide i sogni, magari proprio quando i Dramatist di Larry stanno per ottenere il tanto agognato contratto discografico con il loro canto a cappella: l’arrivo della polizia, il teatro da evacuare subito prima della loro esibizione, e Larry – che ancora non sa quale nottata di infiniti traumi lo stia per aspettare – intento a esibirsi da solo di fronte alla platea ormai deserta, come a volersi prendere quel palco che si è guadagnato e che, dopo quella notte, non vedrà mai più. Sarà la sua ultima esibizione prima di nascondersi, ritirandosi a dirigere il coro di una piccola chiesa gospel, tutta la vita lontano da quelle divise che ormai vogliono dire puro terrore, tutta la vita a leccare ferite psicologiche impossibili da rimarginare. Proprio come quelle ferite inferte dalla polizia alle ragazze, bianche, che avevano la sola colpa quella di frequentare persone di colore andando contro il razzismo insito nella morale dell’esercito. Proprio come quelle ferite indelebili inferte, anche a distanza, a chi in quel motel ha perso un marito, un fratello, un padre innocente, ucciso da chi rimarrà impunito, protetto dal suo distintivo. Detroit mette in scena la necessità di trovare un colpevole da dare in pasto a superiori e opinione pubblica, mette in scena il sistematico insabbiare la verità, mette in scena la differenza insormontabile fra la giustizia e la legge. Mette in scena il “Pregate!” rivolto dal forte ai deboli, mette in scena il sadismo delle autorità, mette in scena la loro “tattica della morte” che da bluff diventa atto criminale vero e proprio, e poi i loro minacciosi ricatti per ottenere il silenzio dei sopravvissuti. Tanto, i colpevoli già lo sanno, il sistema saprà autoassolversi come sempre, rifiutando le confessioni come in un’Indagine al di sopra di un cittadino di ogni sospetto, continuando a negare l’evidenza e a insabbiare, che siano colpe della polizia di Detroit o della Guardia Nazionale, e che sia una giuria popolare di soli bianchi o un giudice a esprimere il verdetto. Il white power, pressione o vero e proprio abuso, continua incontrastato, ieri come oggi, nelle ingiustizie sociali e nei tumulti, nel sangue che scorre e nei punti di ebollizione sempre più vicini. Detroit è un messaggio all’America e al mondo intero, è uno sbattere in faccia il male a chi difende l’indifendibile, è una sveglia che suona per la coscienza e per la vergogna, contro la connivenza e l’omertà. È un qualcosa che ci riporta a essere umani, profondamente umani, disperatamente umani. E incazzati, ovviamente. Specialmente nei troppo poco recettivi Stati Uniti d’America del 2017, dove oggi come ieri una persona con la pelle più scura è ancora un cittadino di serie B, è ancora un “sospetto”, è ancora un “negro”. Il cui sangue sulle mani verrà sempre considerato meno sporco rispetto a quello di un bianco.
Marco Romagna